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Comitato provinciale di Novara
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La lotta partigiana nel Novarese (attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)
Alcune date significative del mese di ottobre
STRAZIANTE FINE DI UNA FAMIGLIA EBREA - Intra 9-11 ottobre 1943
Caduti: Ovazza Ettore, Sacerdoti Nella in Ovazza, Ovazza Riccardo, Ovazza Elena
Decine e decine sono le storie di famiglie di ebrei
che, rifugiatisi, dopo la calata dei nazisti in Italia, in alberghi, presso
pensionati religiosi, in ville e in case private, vengono braccati per
essere rinchiusi in carcere, inviati nei campi di eliminazione e
soprattutto, per essere assassinati.
La breve tragica storia di una famiglia di ebrei.
Ettore Ovazza, ex combattente della 1^ guerra mondiale, è in possesso dei
migliori "titoli" per essere considerato un fascista della
"prima ora": al termine del conflitto aveva aderito al fascismo
e ufficialmente era considerato "squadrista" e "marcia su
Roma"; giornalista politico, aveva diretto "La nostra
bandiera", giornale ebraico, fascista e antisionista.
La famiglia Ovazza è composta da Ettore Ovazza,
banchiere, di anni 51, la moglie Nella Sacerdoti, di anni 41, dai figli
Riccardo, di anni 20 ed Elena, di 15 anni. Gli Ovazza pensano di avere
le "carte in regola" anche se, all'emanazione delle leggi
razziali, nel 1938, il capo-famiglia si è ritirato dalla vita pubblica
forse anche perché la lotta "contro judaeos" ha segnato una
svolta assai più dura di quanto anche gli ebrei che avevano sposato la
causa di Mussolini si fossero immaginati.
Nel settembre 1943, gli Ovazza vendono ogni loro
proprietà, acquistano gioielli, si provvedono di denaro liquido e , da
Torino, si trasferiscono all'Albergo Lyskamm di Gressoney, poi decidono
di espatriare.
Il primo a staccarsi dal nucleo famigliare è Riccardo
Ovazza; lascia Gressoney il 6 di ottobre, si aggrega ad un gruppo di
profughi croati diretto al confine svizzero. Il giovane Riccardo Ovazza non
raggiunge la Svizzera, viene arrestato dalla feldgendarmeria in Ossola e
consegnato, a Intra, al Ten. SS Gottfried Meir, un maestro della tortura
da cui, non vi è alcun dubbio, Riccardo Ovazza riceve una durissima
"lezione". Dinanzi al testimone ing. Henke, che si era recato al
comando SS di Intra per «offrirsi al ten. Meir come
collegamento tra la popolazione e il presidio tedesco», sbotta in una
serie di insulti e di tremende minacce contro il «porco ebreo» a
cui, preso dall'ira, lancia contro anche una sedia.
Riccardo Ovazza viene assassinato il giorna stesso,
sabato 9 ottobre, e il suo corpo viene tagliato a pezzi e «bruciato
nella caldaia del termosifone» nella cantina delle scuole
elementari. Nell'edificio scolastico ha sede il comando nazista.
Il Meir è in possesso, ormai, anche dell'indirizzo
degli altri componenti la famiglia Ovazza. Nella stessa giornata del 9
ottobre '43, una pattuglia di SS accomagnata da un interprete, si
presenta all'Albergo Lyskamm di Gressoney, ottiene conferma della
presenza della famiglia Ovazza e, al banchiere, fa presente che Riccardo,
trovato in possesso di valuta straniera, è stato arrestato. Le SS
invitano, quindi, la famiglia ad approntare i bagagli e a tenersi pronti a
partire per Intra, alle ore 10 del giorno seguente; gli Ovazza sono
invitati pure a fornirsi di un automezzo. Il giorno 10 alle ore 10 i
coniugi Ovazza e la figlia, caricano i bagagli su una macchina a noleggio,
prendono posto in vettura e, seguiti dalla "scorta", s'avviano
verso l'"ultima spiaggia".
L'11 ottobre, l'addetto del Comune, Rodomonte
Cadenazzi, viene chiamato per accendere la caldaia nella cantina delle
scuole elementari, ora comando tedesco, ma, appena accesa la caldaia, il
Cadenazzi viene allontanato.
Ad uno ad uno Ettore, Nella ed Elena Ovazza vengono
trascinati in cantina e uccisi con un colpo alla tempia; i loro corpi
vengono fatti a pezzi e bruciati (tale testimonianza al processo contro
Mair da parte della bidella delle scuole elementari femminili di Intra,
che dalla finestra della scuola ha potuto vedere la fine fatta dalla
famiglia Ovazza).
Rodomonte Cadenazzi al processo contro Mair per
l'uccisione della famiglia Ovazza, ricorda: «pulendo accuratamente la
caldaia», ciò avviene dopo che le SS di Mair si sono trasferite in
altra località, «non mi sfugge il caratteristico odore dell'incenerimento
della carne. Nonostante, poi, trovi sia il focolaio che la sottogriglia
pieni di rottami di maiolica e di metallo, posti certamente a fuoco
spento, noto parecchi frammenti di ossa calcinate».
SPARANO A CASACCIO - Arona, 1 ottobre 1944
Caduto: Franzetti Angelina
Quando le ombre fanno paura si spara all'impazzata e
si uccide. E' il 1 ottobre del '44, e per le vie di Arona si
snoda un corteo funebre che segue le bare di alcuni "camerati".
I Fascisti hanno paura, temono l'attacco dei partigiani; dall'una e
dall'altra parte del corteo vi è la Milizia che fa da scorta con mitra
"pronti per l'uso".
Si raggiunge il Cimitero e, mentre i Sacerdoti recitano
le preghiere per i defunti, alcuni giovani militi si mettono a
sparacchiare verso la collina; che cosa hanno visto?
Alcune ombre
scambiate, ovviamente, per partigiani pronti all'assalto.
La funzione religiosa viene interrotta e l'Arciprete,
con gli altri Sacerdoti, viene tradotto all'albergo Milano (per gli
aronesi "Alcatraz" perché trasformato in fortino dalla "X Mas").
La sparatoria verso la collina da, per i fascisti, i suoi frutti. Viene
infatti uccisa una giovane donna, Angelina Franzetti, che per caso si
trova sulla traiettoria di una delle tante raffiche di mitra sparate all'impazzata.
VILLA TRISTE - Borgomanero,1 ottobre 1944
Caduto: Gnemmi Angelo
Villa Bonola di Borgomanero, «dall'aspetto un po'
malinconico, circondata da un vasto parco verdeggiante, ricco di alberi
secolari, posta sulla sinistra del corso che porta alla stazione, da, a
chi vi entra, l'impressione di sentirsi solo e triste..» Costruita
nel XVIII secolo «assai comoda
, ben protetta da alti muri
»,
nel 1944-45, è un rifugio-fortino della "Folgore".
La villa, ridotta a fortino, per i fascisti è anche
luogo di divertimento e baldorie serali; gli incontri e i
festeggiamenti delle ausiliarie e delle favorite del famigerato gerarca
Roncarolo sono all'ordine del giorno, nelle accoglienti stanze di villa
Bonola. Ma le baldorie si alternano alle "operazioni" di sevizie
e di torture inaudite che si effettuano al piano terreno della villa dove,
permanentemente, sono "ospiti" partigiani e civili catturati
dai militi neri. Particolarmente nelle ore serali e notturne, i giovani
rinchiusi nei locali del piano terreno, costretti, legati piedi e mani, a
rimanere distesi sul pavimento di terra battuta attendono, con giustificato
timore, che i gozzavigliatori neri scendano per smaltire le loro sbornie e
la loro rabbia con calci, pugni e bastonate sui loro corpi.
Fra i "disgraziati" ospiti della "villa
triste" di Borgomanero vi è anche Angelo Gnemmi che, dopo essere
stato torturato dai militi neri, viene trascinato in Piazza Vittorio
Emanuele II° e fucilato dal plotone di esecuzione, comandato dal ten.
Silvaldi, dinanzi alla popolazione costretta ad uscire dalla chiesa per
assistere al tragico "spettacolo".
Secondo consuetudine, la salma di Angelo Gnemmi viene
abbandonata sul selciato, con la proibizione ai borgomaneresi di
avvicinarsi.
TIRO AL BERSAGLIO - Prato Sesia, 10 ottobre 1944
Caduto: Sesia Erminio
Erminio Sesia, nato a Sillavengo il 7/2/1923, nella
primavera del '44 sale fra i partigiani della "Valtoce". Nel
Cusio partecipa a numerose azioni e dimostra di essere un giovane assai
coraggioso.
Verso la fine di settembre, Erminio Sesia, avendo
ritrovato vecchi amici fra i garibaldini, passa dalla "Valtoce"
alla brigata "Osella", ma la sua vita viene presto stroncata. Il
dieci ottobre, sorpreso dal nemico nei prati del Gabbio, viene inseguito
e, preso quale bersaglio da una pattuglia di militi, cade colpito da
numerose raffiche di mitra.
LA CONTROFFENSIVA DI OTTOBRE - Punta di Migiandone, 9-13 ottobre 1944
Caduti: Massari Mario, Tedeschi Fausto
I nazifascisti concentrano le loro forze sia all'estremo
limite della valle Cannobina, nei pressi di Finero, sia sulla linea
Gravellona Toce-Feriolo-Mergozzo. Le truppe nemiche provengono da
Novara, Milano, Laveno, Verbania e Omegna; i nazifascisti lanciano la
controffensiva contando su una forza di 17/18 mila uomini in gran parte
provenienti da Corpi Speciali germanici, dalla "X Mas" e dalla
"Folgore". E' il 9 ottobre, il fronte meridionale di resistenza
è in allarme e nuovi reparti si portano a ridosso della prima linea,
mentre si attivano alcuni indispensabili servizi ausiliari (posti di
pronto soccorso, magazzini viveri per l'immediato consumo, magazzinetti
per il deposito di cassette di munizioni, ecc.).
L'attesa dell'attacco non è lunga, il nemico si fa
precedere dal martellamento della zona con armi pesanti a lunga gittata,
ma non vengono arrecati gravi danni allo schieramento partigiano
.
Il 10 ottobre, fin dalle prime ore del
mattino, carri armati cercano di liberare la Statale dai tronchi d'albero
che i partigiani vi hanno posto per rallentare l'avanzata del nemico.
Nel primo pomeriggio la battaglia si fa più dura e, per alcune ore , i
partigiani debbono abbandonare alcune posizioni, ma , qualche ora più
tardi, il nemico è costretto a ritirarsi disordinatamente, inseguito dai
reparti di "Nello", "Fano", "Ruggero", "Morelli",
"Mimmo", "Piero", "Dido" e del maresciallo
Roggi, della brigata "Antonio Di Dio", della compagnia
"comando" e del plotone dei georgiani che deve ingaggiare con i
nazisti anche un furioso scontro all'arma bianca. Al termine di quello
lunga e dura giornata, le artiglierie nemiche riprendono il
cannoneggiamento nel corso del quale rimangono feriti, sia pur lievemente,
alcuni partigiani fra cui il "tenete Mimmo" che ritorna al
proprio posto di combattimento dopo qualche ora.
Le prime ore del mattino dell'11, vengono movimentate
dal tentativo nemico di infiltrarsi nella linea di difesa partigiana con
il treno blindato; il tentativo fallisce miseramente perché il treno
viene fermato ad un casello ferroviario tra Gravellona Toce ed Ornavasso,
costretto a rinculare precipitosamente e a raggiungere la stazione di
partenza. Sul calar della sera, i partigiani dopo aver difeso strenuamente
le loro posizioni, sono costretti a ritirarsi sulla nuova linea: Punta di
Migiandone-Bettola.
Piove senza sosta, nel corso della notte il nemico
porta in avanti forze "fresche", i partigiani della "Valtoce"
e della "Redi" sono fradici e non solo non possono essere
sostituiti da altri reparti, ma non possono neppure cambiare gli indumenti
zuppi d'acqua.
Il 12 ottobre, fin dalle prime ore del mattino, il
nemico riprende a battere con le artiglierie sulla zona ove i partigiani
si sono attestati creando la nuova linea di difesa; altri reparti nemici
operano le prime infiltrazioni lungo il crinale che scende su Migiandone,
tentando di prendere alle spalle la prima linea partigiana. Nel corso dell'azione
di resistenza alla manovra del nemico viene investito da un nugolo di
schegge di una bomba di mortaio il ventunenne Mario Massari di Pieve
Vergonte, appartenente alla brigata "Antonio Di Dio". Nonostante
il pronto aiuto prestato dai suoi compagni, Massari muore prima ancora di
raggiungere la piccola, provvisoria infermeria attrezzata per il pronto
soccorso.
La resistenza partigiana sul fronte sud da molto filo
da torcere ai nazisti anche se, evidentemente , non potrà continuare
ancora per lungo tempo sia per l'impossibilità di dare il cambio ai
reparti che da quattro giorni sono sotto il tiro del nemico e che sono
costretti a rintuzzare con contrattacchi gli attacchi nazifascisti, sia
perché cominciano a mancare le munizioni e i viveri sia, infine, perché
è, quella nemica, una vera e propria "valanga" di soldati
dotati di armi pesanti e leggere, di munizioni e di quant'altro occorre
per fare la guerra.
Il numero dei feriti, nelle file partigiane, comincia a
salire. Fra gli altri rimangono feriti Fausto Del Ponte che, con il dito
intinto nel proprio sangue , scrive sulla roccia dietro cui si
ripara: «la vita per l'Italia», ed il "tenente
Mimmo" che, questa volta, viene colpito da numerose schegge al ventre
e alla gamba destra. Durante la battaglia cade anche il comandante di
reparto Tedeschi Fausto.
Il giorno 13 la situazione, per i partigiani che, per
il quinto giorno , si battono alle porte della Valle Ossola, si fa
disperata. Gli uomini della "Valtoce" e i garibaldini della
"Redi" devono abbandonare la seconda linea ed arretrare fino a
Piedimulera-Ponte della Masona incalzati dal nemico.
Alle loro spalle, a Domodossola, si sta già facendo il
vuoto. Si allestiscono treni per lo sgombero della popolazione e,
soprattutto, dei bambini che devono riparare in Svizzera. Non vi è più
nulla da fare per gli uomini del fronte meridionale, non sono in grado di
creare una nuova linea di difesa e sono costretti a ritirarsi oltre
Villadossola e portarsi, infine, nelle Valli circostanti.
Nella notte del 13, Domodossola vede le ultime
partenze, e all'alba del 14 ottobre anche uomini della Giunta
Provvisoria di Governo e del CLN lasciano la Città e si portano a Premia.
Il nemico entra, il mattino del 14 ottobre, in Domodossola.
AL SASSO DI FINERO - Valle Cannobina, 12 ottobre 1944
Caduti: Alfredo Di Dio, Attilio Moneta
Il giorno 10 ottobre, truppe nemiche con forze
relativamente modeste attaccano verso le prime ore del mattino le
posizioni partigiane sulla linea di sicurezza Ornavasso-Mergozzo-Bracchio
con l'appoggio di un carro armato. Vengono respinte. Altra colonna
risale la Valle del S. Bernardino e la Val d'Intragna provocando un
arretramento della 85^ Brigata Garibaldi.
Il Commissario politico del Comando Unico, Scarpone
Paolo "Livio", in una relazione inviata al al Comando Generale
delle brigate Garibaldi , descrivendo ciò che avviene dall'8 al 22
ottobre '44, fa, tra l'altro, presente che nei «giorni 11-12 l'attacco
nemico si scatena in grandi forze, il punto più debole si manifesta nel
settore controllato e difeso dalla divisione "Piave", nella
valle Cannobina. Il fronte della "Piave" si schianta, si
polverizza, scompare»
.
A tale proposito, Pippo Frassati interviene giustamente
per precisare che: «
per tre giorni la divisione si logora in una
serie di scontri sanguinosi, disputando palmo a palmo il terreno al nemico
ed infliggendogli perdite fortissime
. L'11 ottobre, dopo 10 ore di
combattimento a Falmenta, i nazifascisti vengono obbligati a temporanei
ripiegamenti. Ad aggravare la situazione accade che le mine collocate alla
base dei ponti sulla strada
non brillano».
Nelle prime ore del 12 ottobre, 250 partigiani della
"Valtoce" e della "Valdossola" si trasferiscono, dalle
retrovie del fronte sud, a Finero e sui costoni laterali. Quasi
contemporaneamente «preceduti da poderosa azione di fuoco con
artiglieria e mortai e con l'impiego di notevoli forze (si calcola 3000
uomini)», i nazifascisti attaccano gli avamposti partigiani sul
fronte Sud che «conformemente agli ordini ripiegano ordinatamente
su
Bettola e Punta di Migiandone».
Le notizie che giungono, rincorrendosi, al Comandante
"Federici", sono notevolmente contrastanti. Vi è chi comunica
che reparti della "Piave" e della "85^ brigata
Garibaldi" - rimasti isolati nel Verbano nei due giorni precedenti -
stanno attaccando con successo le truppe nazifasciste, liberando i paesi
rivieraschi e che i nazifascisti, su dieci grossi automezzi, stanno
ridiscendendo la Valle Cannobina per rifugiarsi in Cannobio. L'ultima
notizia sembra essere confermata dal fatto che a Finero non vi sono
tedeschi e che gli abitanti del Paese dichiarano di essere convinti che il
nemico stia ritirandosi.
Nel susseguirsi di notizie e di «attacchi e
battaglie, avanzate e ritirate», il comandante "Marco" e i
convenuti alla riunione tenuta nella notte fra l'11 e il 12 ottobre si
assumono il compito di controllare la veridicità delle informazioni
pervenute dal fronte della Cannobina. Partono da Malesco due macchine su
cui salgono "Marco" e i suoi compagni; nei pressi di Finero
incontrano la compagnia comando della "Valtoce" che si mette in
marcia per seguire le due macchine che procedono, lentamente, oltre il
Paese verso la galleria; poi la velocità delle due macchine aumenta e la
compagnia-comando rimane presto distanziata di alcune centinaia di metri.
"Marco" e i suoi compagni a 330 metri dalla galleria si fermano
e proseguono a piedi fino al ponte. Mentre stanno guardando l'abisso che
si apre sotto il ponte, interamente scomparso
, inizia, dal costone
sovrastante la galleria, una sparatoria infernale con mitragliatori e
mitragliatrici.
I dieci uomini in avanscoperta, sorpresi dalla
sparatoria, si buttano a terra addossandosi al muretto. La strada è
stretta, da una parte vi è lo strapiombo, dall'altra la parete
rocciosa; indietro non si può tornare se non portandosi allo scoperto.
Organizzare la difesa in posizione come quella in cui si trovano i dieci
caduti nell'imboscata, con il tipo di armi a disposizione (tre mitra,
qualche pistola, alcune bombe a mano), è veramente impossibile. La
colonna della compagnia-comando, quando ha inizio la sparatoria, si trova
distanziata dalle due macchine di circa quattrocento metri e non può
avvicinarsi per il susseguirsi incessante delle raffiche delle 20 mm. e
dei colpi di sbarramento dei mortai che creano un muro invalicabile.
Decidono di raggiungere le automobili. «Strisciando lungo il
muretto, raggiungono la curva dove si trovano le automobili, attraversano
la strada allo scoperto». Tutti ce la fanno, salvo
"Marco". I tedeschi concentrano il tiro sulle macchine che
prendono fuoco.
"Marco", ultimo ad abbandonare il riparo del
muretto, non appena allo scoperto, viene colpito alla gamba destra; si
trascina al riparo della roccia ma, dagli squarci al ginocchio e alla
coscia, perde molto sangue. Il "Cap. Franco", arditamente,
attraversa la strada allo scoperto, riesce a raggiungere "Marco"
e lo aiuta a tamponare, con fazzoletti, le ferite. Il col. Attilio Moneta,
ritenendo che il "cap. Franco" non possa farcela da solo a
trascinare "Marco" al sicuro, tenta di raggiungere i due
compagni, ma viene colpito a morte e stramazza in mezzo alla strada.
Intanto dietro al roccione, oltre la curva, rimangono solo il magg.
Patterson e Gioacchino Cerutti; gli altri raggiungono un canalone e
riescono ad allontanarsi e a mettersi in salvo. La compagnia-comando
è immobilizzata sulla posizione iniziale. I tedeschi «..per un
po' di tempo vanno avanti a sparare in tutte le direzioni con armi di
tutti i tipi: prendono soprattutto di mira il bosco, forse per impedire di
raggiungere il paese.
I tentativi per portarci avanti falliscono
. Non
è possibile far nulla; "Carlo", il comandante della
compagnia-comando, dà l'ordine di ritirata». L'avversario si
muove verso il Sasso di Finero, ove il col. Moneta non dà più segni di
vita e le macchine sono ormai ridotte a scheletri. Il nemico avanza
sparando raffiche di mitra, mentre le batterie di mortai continuano a
vomitare colpi sulla strada che porta a Finero.
Quando i tedeschi raggiungono il Sasso di Finero,
"Marco" è ancora vivo e, se fosse immediatamente soccorso, lo
si potrebbe salvare; il magg. Patterson e Gioacchino Cerutti vengono fatti
prigionieri. Cerutti implora i tedeschi di soccorrere il Comandante della
"Voltoce" ma ne ha un duro, incredibile rifiuto.
"Marco", il generoso comandante, muore
dissanguato, per l'ingenerosità, per il rifiuto inumano di assistenza
da parte di un feroce nemico.
«La notizia della morte del comandante Alfredo
Di Dio», ricorda Cino Moscatelli «si diffonde in un
baleno e provoca costernazione,
era stimato per il suo coraggio e la
dedizione alla lotta di liberazione».
LA CABINA DELLA MORTE - Goglio, 17 ottobre 1944
Caduti: Conti Giuseppe, Faccioli Giuseppe, Fossa Giorgio, Pratini Gaudenzio
Nella Valle di Devero, sono giorni di contrattacco
nazifascista. «Nelle prime ore del giorno 14 anche il Comando unico
abbandona Domodossola per trasferirsi a Premia, in valle Antigorio. Nel
pomeriggio di quello stesso giorno tedeschi e fascisti, preceduti dal
mitragliamento di due apparecchi tedeschi - poi atterrati su quel campo
Chavez che i partigiani hanno preparato con tanta cura per gli Alleati -
entrano in Domodossola deserta
».
Le diverse formazioni partigiane si dispongono nelle
varie vallate, i nazifascisti continuano la loro avanzata e incalzano i
partigiani nelle valli Antigorio e Formazza e in Val di Devero.
I reparti della "Valdossola" che si
introducono nella Val di Devero, si lasciano alle spalle Baceno in
direzione di Goglio ove vi è una funivia che porta dai 1133 ai 1631 metri
dell'Alpe Devero. Dall'Alpe Devero, valicando il confine, si
raggiungono le vallate del Làngtal e del Binnatal. La funivia dell'Edison
è dotata di una sola cabina; d'altra parte raggiungere con la
mulattiera l'Alpe Devero è estremamente faticoso per i giovani della
"Valdossola" che, sempre a piedi, sono arrivati a Goglio
partendo da Cuzzago e Premosello; inoltre, il morale è a terra e si
mangia quel poco che si trova.
Il comandante "Fausto", a cui sono pervenute
voci che danno per certo l'arrivo delle avanguardie nemiche a Baceno,
nella notte tra il 16 e il 17, sprona il suo reparto a lasciare Goglio il
più presto possibile. Bisogna salire, verso l'alpe Devero, a piedi; la
gran parte degli uomini non può salire sulla cabina della funivia perché
vi è poco spazio e mette oltre dieci minuti per coprire il percorso.
Nella cabina della funivia si assiepano una ventina di uomini, per lo più
disarmati (fra gli altri il giovane ufficiale mergozzese Mario Maffioli);
la cabina stenta a partire, poi arranca con grande difficoltà e lentezza
e a circa 150 metri dal primo cavalletto si ferma perché è saltato il
riduttore. Il macchinista Giovanni Savoia, della stazione di Devero con l'aiuto
di alcuni partigiani che sono già sul posto, manovra l'argano e riesce
a far ridiscendere la cabina verso la stazione di Goglio, ma la discesa è
oltremodo lenta sia per il sovraccarico, sia perché l'argano azionato a
mano non permette una discesa più rapida. Viene comunicato ai partigiani
che i tedeschi hanno già raggiunto il paese. Anche i partigiani chiusi
nella cabina si accorgono, dal luccichio degli elmetti, della presenza dei
tedeschi nei pressi della stazione di Goglio. La discesa della cabina
sembra essere sempre più lenta. Finalmente la cabina si arresta sopra una
catasta di legna, a non più di quattro metri dal suolo; si apre la porta
verso l'alto; i partigiani vedono una via di salvezza; è Falcioni di
Cuzzego il primo a buttarsi e a mettersi in salvo nel bosco; altri lo
seguono e la fanno franca.
Purtroppo i tedeschi si accorgono di quanto succede,
piazzano tre mitragliatrici e fanno fuoco contro la cabina della funivia.
Mentre continua il tiro a segno contro la cabina, gli altri tedeschi si
buttano alla caccia degli altri partigiani fuggiti nella boscaglia.
Ecco quanto ricorda il partigiano Ubaldo Marta
residente a Vogogna nella sua testimonianza resa al comandante Ercole
Vittorio Ferrario della divisione "Valdossola" inserita nel
volume "Goglio 17/10/44, il dramma della funivia": «Nella
cabina siamo in ventiquattro, con cinque mitragliatori, due mortai da 45
senza munizioni, una cassa di carne e due fiaschi di vino. Un carico senza
dubbio eccessivo. Rimango bloccato nella cabina con addosso il Pep
Faccioli morto. Quando i tedeschi entrano nella cabina mi prendono a
calci, mi buttano fuori e mi fanno stendere a terra, poi ancora a calci,
ammazzano il Pratini, già ferito, a due passi da me. Un colpo di lato
alla testa».
Dalla cabina estraggono anche il corpo esanime del
secondo "Pep" Giuseppe Conti che, come Faccioli, è milanese.
Nella boscaglia, il diciassettenne torinese Giorgio Fossa viene braccato
da una muta urlante e che spara all'impazzata; il giovane partigiano si
butta in una buca, deciso a vendere cara la pelle; risponde al fuoco del
nemico fino all'esaurimento delle munizioni, non si arrende e cade
colpito al capo da una raffica di mitra.
Vengono fatti prigionieri dagli Alpenjager: Orlando
Corani, gravemente ferito e il già menzionato Ubaldo Marta. A questi
viene amputata una gamba che va in cancrena; ricoverato in ospedale, con l'aiuto
di compagni ed amici, riesce ad evadere dall'ospedale e a raggiungere
Vogogna dove rimane nascosto fino alla Liberazione; gli altri vengono
inviati in campo di concentramento.
LE AUSILIARIE DEL DUCE - Biandrate - Novara, 17 ottobre 1944
Caduto: Natale Olivieri
Mentre nell'alto novarese sta concludendosi la
serie di operazioni che porta alla rioccupazione dell'Ossola da parte
dei nazifascisti, nel Medio e Basso Novarese continuano ad operare le
diverse unità garibaldine che, dalla primavera, hanno esteso la loro
attività in pianura, così come, nel capoluogo e nei paesi del
circondario, GAP e SAP, rafforzandosi, portano più numerose ed incisive
azioni di disturbo.
Alcuni reparti della brigata "Osella" operano
già alla periferia di Novara, attaccano le colonne nemiche che si
dirigono verso le zone alte della provincia o della Valsesia o che
rientrano dai rastrellamenti condotti in quelle zone, danno continuo
"fastidio" ai posti di blocco e danno l'assalto alle caserme
presidiate dai nazifascisti.
Proprio nel corso di un'azione condotta da una
pattuglia dell'"Osella" contro il nemico, nella zona di
Biandrate, il 17 ottobre 1944, viene catturato dai militi della
"Squadraccia" il carabiniere-partigiano Natale Olivieri.
E' la "Squadraccia", la teppaglia di
Vezzalini, Pasqualy e del boia Martino che si incarica di fare giustizia
sommaria, senza il rispetto di alcuna procedura legale, con la ferocia che
contraddistingue questa banda di criminali.
Natale Olivieri, ventunenne, viene bastonato, preso a
calci, vilipeso; trasportato a Novara, viene nuovamente torturato; qualche
ora più tardi, più morto che vivo, viene fucilato in piazza Vittorio
Emanuele II° (ora Piazza Martiri della Libertà).
Il giornale repubblichino "Ardimento" dopo
aver dato un resoconto dell'episodio ad uso e consumo dei propri lettori
fascisti, racconta che il carabiniere Natale Olivieri «..reo
confesso di varie rapine, dell'assassinio di due legionari e delle sue
intenzioni di sopprimere gli agenti che stamane erano diretti in servizio
a Biandrate
. E' stato trovato in possesso di un moschetto, due
rivoltelle e di sei bombe a mano, un armamento giustificante non una ma
dodici fucilazioni..».
Ma il coccodrillo nero, cronista di
"Ardimento" versa abbondanti lacrime al termine del racconto e
commenta «l'argomento tristissimo e lancinante turba la nostra
insuperata umanità italica e cristiana», di cui danno prova le
Ausiliarie del Duce davanti al corpo martoriato di Natale Olivieri.
È il prof. Piero Fornara (prefetto della Liberazione)
che racconta: «Attorno al cadavere di Olivieri pietà e odio,
dolore e sarcarmi si susseguirono fino al tramonto. Le Ausiliarie danzano
sopra il cadavere e gli cacciano i tacchi nella faccia, altri sono forzati
a sputare sul morto».
MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D'ARGENTO AL V.M. A NATALE OLIVIERI
Comandante di squadra partigiana, durante un impari
combattimento contro un forte reparto fascista, dava splendide prove di
ardimento e coraggio. Dopo aspra lotta, in cui riusciva a sottrarre il suo
reparto da sicuro annientamento, ferito, cercava rifugio in un centro
abitato, occultandosi in un edificio.
Ricercato, ma non scoperto dal nemico che lo aveva
inseguito, informato del delittuoso proposito di incendiare per
rappresaglia alcune case, si consegnava spontaneamente ai fascisti.
Tradotto al capoluogo di provincia, veniva fucilato su pubblica piazza,
eroica vittima della lotta per la libertà e fulgido esempio di generoso
altruismo.
ANNA LA SPOSA PARTIGIANA - Alpe Colla, 17 ottobre 19445
Caduti: Anna Picari, Domenico Rebughini.
Anna è la giovane sposa del partigiano garibaldino
Enrico Giudici. Enrico ha lasciato a casa, con la mamma, Anna e si è
unito ai partigiani per combattere contro i tedeschi invasori e contro gli
oppressori fascisti.
Passano alcuni mesi e Anna non riceve notizie di
Enrico, mentre ha da dare al marito un annuncio molto importante: porta in
grembo il frutto del loro amore. Finalmente, nei giorni della Liberazione
dell'Ossola, una staffetta comunica ad Anna che Enrico si fa onore. Anno
vuole dare la notizia di persona e con le indicazioni fornite dalla
staffetta riesce a raggiungere il marito. Enrico cerca, inutilmente di
convincere Anna a tornare a casa, ma la giovane sposa vuole rimanere al
suo fianco. Con il fazzoletto rosso al collo, Anna è ora una
"garibaldina" del reparto comandato da Domenico Pizzi "Moro".
Anna, con l'aiuto dei compagni, impara a sparare e si
rende assai utile nel corso del primo attacco nemico; Anna sa sparare,
affronta con grande coraggio il nemico, incita i suoi compagni a
resistere. E' il 14 ottobre 1944, reparti garibaldini e della "Valtoce"
tentano invano di fare saltare il ponte stradale sul Toce, tra Ornavasso e
Cuzzago; le unità partigiane che si sono battute sul fronte Ornavasso-Cuzzago ripiegano su
Piedimulera ma, incalzate dal nemico, si ritirano in
Valle Antigorio e in Valle Anzasca. "Moro" si porta con i suoi
uomini in valle Anzasca.
Alla Colla, nelle baite poste a circa 2000 metri non
lontano dal Passo di Monte Moro, si ferma il reparto di cui fanno parte
anche Enrico e Anna, "Moro" prosegue, con un altro reparto, fino
all'alpe Meccia. Nel contempo continua l'avanzata dei nazifascisti
che, penetrati in valle Anzasca, raggiungono Ceppo Morelli, ove si
insediano con il campo-base.
All'alba del 17 ottobre reparti nazifascisti di
dispongono a semicerchio attorno alle baite, ai margini della boscaglia.
Anna, uscita dalla baita per stendere al sole
due stracci, dà improvvisamente un urlo: «all'armi! Siamo circondati
».
Anna riesce a rientrare nella baita e «dalla
finestrella spara, spara contro il nemico, accanto al marito» a
cui, rivolgendosi, senza smettere di sparare, dice «se mi
ammazzano muoio accanto a te».
La baita colpita da un mortaio frana, i due sposi
ruzzolano fuori. Enrico, ferito da una scheggia, riesce a trascinarsi
dietro ad un grande cespuglio e di lì ad eclissarsi. Anna viene falciata
da una raffica di mitra e viene "finita" da una scarica al
ventre. Il nemico non è ancora sazio, un brigante nero scarica la
rivoltella in bocca alla coraggiosa partigiana.
«Ora, la piccola, bella Anna, la giovane sposa
riposa lassù, a Ceppo Morelli, in un minuscolo cimitero». Accanto
ad Anna riposa pure un altro partigiano, il lodigiano Domenico Rebughini,
caduto nello stesso giorno all'alpe Colla.
GLI ALPEGGI DELLA VALLE ANZASCA
Cappella della Pace, 14 ottobre 1944
Caduto: Agostino Pisolini
Alpe Meccia, 22 ottobre 1944
Caduti: Benito Andreoli, Mario Bassi, Annibale
Ceccon, Angelo Falsone, Giuseppina Fregonara, Mario Lana, Bruno Magnaghi,
Luigi Magnaghi, Teodoro Picchetti, Anselmo Scomazzon.
La valle Anzasca è percorsa dal torrente da cui prende
il nome, il torrente Anza. Alla cappella della Pace, che si affaccia su
Piedimulera, una piccola squadra di garibaldini, al comando dell'ossolano
Libero Solfrini, è in attesa che i fascisti raggiungano il ponte sull'Anza.
La mitragliatrice è ben piazzata e il domese Agostino Pisolini, che ne è
il portatore, è pronto a sparare contro il nemico. Finalmente! L'avanguardia
nemica avanza sul ponte, canta la mitragliatrice di Agostino e sul ponte
si fa immediatamente il vuoto.
Interviene l'artiglieria pesante da una prestazione
piazzata ai margini della frazione Rumianca; dopo alcuni tiri di assaggio,
la postazione partigiana viene centrata con assoluta precisione. Perde la
vita Agostino Pisolini e rimane immobilizzato ferito alla gamba anche
Solfrini, il comandante del nucleo partigiano.
I tre partigiani sopravvissuti non mollano, continuano
a sparare con i loro fucili, cercando di evitare i colpi a vuoto, ma la
loro posizione è sempre più difficile, perché i tedeschi avanzano nel
tentativo di accerchiarli. Questa volta la fortuna aiuta i tre
garibaldini; vengono raggiunti dal comandante "Moro" che, con un
automezzo, riesce a portare in salvo loro e il Solfrini fino a Vanzone S.
Carlo da dove, abbandonato l'automezzo e con un'altra squadra, si sale
verso Monte Moro. Alle baite della Colla, a circa 2000 metri, si ferma la
prima squadra di cui fanno parte anche Enrico Giudici e la sua sposa Anna
Picari. "Moro" e le altre due squadre proseguono verso Alpe Meccia dove gli
uomini, stanchi, trovano rifugio in alcune baite.
È il risultato di una spiata ciò che avviene all'alpe
Meccia il 22 ottobre 1944?.
Una colonna formata da reparti tedeschi e fascisti
parte da Macugnaga e punta verso l'alpe dove sa per certo che ha trovato
rifugio una squadra di garibaldini. In una baita dell'Alpe Meccia, Bruno
Magnaghi, con la moglie Giuseppina Fregonara, in stato di gravidanza, e il
fratello Luigi (il terzo dei fratelli si è rifugiato in Svizzera) sono
alle prese con la cucina: valligiani hanno dato loro del latte e, con la
polenta che i Magnaghi si sono portata nello zaino, il pranzo del
mezzogiorno dovrebbe essere assicurato
..
Gli altri nove partigiani stanno riposando e
chiacchierando in altre baite nella certezza che il nemico sia ancora ben
lontano dall'alpe Meccia.
Poco prima delle undici, la colonna nemica raggiunge la
zona delle baite e si dispone a semicerchio; poco dopo tedeschi e fascisti
aprono il fuoco. Amabile Ceccon è il primo a buttarsi fuori dalla baita
ed è il primo a cadere colpito dalle raffiche dei mitra. Il Comandante
"Moro" e il partigiano Scognamiglio escono contemporaneamente, sparando all'impazzata
contro i tedeschi che hanno quasi raggiunto lo spiazzo delle baite; si
infilano in un canalone e riescono a sottrarsi alla vista del nemico. Per
gli altri partigiani non vi è possibilità di resistenza: alle ore undici
e quindici dinanzi alle baite giacciono i corpi inanimati di Benito
Aureoli, Mario Bassi, Angelo Falsone, Mario Lana, Bruno e Luigi Magnaghi,
Teodoro Picchetti, Anselmo Scomazzon. Il corpo di Giuseppina Fregonara
viene trovato «colpito in più parti proprio sul mucchio di
letame».
Il giorno seguente, dai cascinali non lontani dall'alpe
Meccia, vengono prelevati, dai tedeschi, numerosi valligiani (circa una
ventina) e vengono accompagnati sul luogo del massacro. I partigiani
uccisi, mani e piedi legati ad una pertica, come belve uccise in un
safari, vengono trasportati dai valligiani a Macugnaga e, per ordine dei
tedeschi, allineati sulla strada, all'ingresso del paese.
BATTAGLIA ALLA FRONTIERA - Bagni di Craveggia, 18-19 ottobre 1944
Caduti: Adriano Bianchi, Dario Casanova, Renzo Cohen, Federico Marescotti
I nazifascisti riconquistano la Valdossola dopo aspri
combattimenti. Pippo Frassati, Armando Calzavara e Carlo Viglio, alla
guida rispettivamente della "Perotti", della
"Battisti" e della "Matteotti", devono ormai
abbandonare la val Cannobina per evitare che le loro formazioni vengono
accerchiate dalle truppe nazifasciste che, sfondati i due fronti,
Ornavasso-Condoglia e Cannero-Cannobio, incalzano i partigiani costretti a
ritirarsi e a risalire le valli.
Nella notte tra il 13 e il 14 ottobre reparti della
"Perotti" raggiungono Bagni di Craveggia, proprio al confine con
la Svizzera; non vi sono che un albergo, alcune casette e qualche
cascinale. Gli uomini che hanno raggiunto Bagni di Craveggia sono in gran
parte disarmati e con le poche armi vi sono scarse munizioni; inoltre, le
aspre battaglie, le lunghe e faticose arrampicate, la fame e la tensione a
cui sono sottoposti da giorni li hanno svuotati di energie. Combattere in
quella posizione e in quelle condizioni vuol dire andare incontro a morte
sicura; vi è un'unica via di scampo, superare la linea di confine e
rifugiarsi in Svizzera. Nei giorni che seguono altre squadre della
"Battisti", della "Musatti" e della "Guardia
Nazionale", stanche del lungo peregrinare dall'una all'altra
valle, si accampano nella zona. Numerosi sono pure i civili che, fuggiti
da Domodossola e dai paesi della val Cannobina e della val Vigezzo prima
dell'arrivo dei nazifascisti, si sono aggregati a gruppi partigiani in
ritirata. Solo a seguito di reiterate, insistenti preghiere, il Comando
svizzero di Frontiera autorizza lo sconfinamento dei civili e dei
partigiani feriti o ammalati che vengono trasferiti in campi di
internamento. Entrano in Svizzera circa duecentocinquanta civili e quei
partigiani che necessitano di cure ospedaliere. Quando il governo della
Confederazione viene a conoscenza della modificata situazione in Ossola,
dà disposizioni per l'invio di rinforzi ai presidi di frontiera e, in
particolare, a quelli posti dalla valle di Vergelletto alla Centovalli. I
due ufficiali svizzeri, cap. Tullio Bernasconi e ten. ing. Augusto Rima,
si rendono immediatamente conto della difficilissima situazione in cui si
trovano i partigiani ma, comunque, osservano con rigore le disposizioni
delle Autorità elvetiche.
I partigiani dispongono posti di blocco alla Bocchetta
di S. Antonio e al valico di Pian del Bozzo. Un informatore comunica l'approssimarsi
delle avanguardie nazifasciste. L'ing. Rima entra in territorio italiano
e, pur contro le disposizioni superiori e con coraggiosa iniziativa, si
porta al Comando partigiano per informarlo della presenza del nemico in
zona e per consigliarlo circa le posizioni da occupare e mantenere fino
all'ultimo, in modo da dar tempo all'intero gruppo di prepararsi allo
scontro e ai disarmati di riparare in Svizzera.
18 ottobre1944: pioggia e nebbia. Fin dalle prime ore
del mattino il nemico, non visto ed indisturbato, si porta sulle alture
che guardano Bagni di Craveggia; l'allarme viene dato dal posto di
blocco di Pian del Bozzo con tre colpi di moschetto. Dopo poco tempo, le
armi automatiche della "Folgore" e della "X Mas" danno
inizio al loro lugubre canto. La forza nemica è costituita da circa
duecento militi della Repubblica di Salò armati di cinque mitragliatrici
leggere ed è comandata dai fratelli Falangola e dal cap. Paolo Violante
di Craveggia; i reparti fascisti sono seguiti e sostenuti da una compagnia
di SS addestrata alla guerriglia.
I partigiani possono contare su trentuno fucili, due
mitra e scarse munizioni; sono comandati dal ventiquattrenne ing. Federico
Marescotti. Parte dei soldati svizzeri occupa la casa di una donna di nome
Tarabori e, da questa posizione in territorio elvetico, seguono le vicende
della battaglia. Con le loro poche armi, i partigiani si difendono
caparbiamente e accennano, a più riprese, ad azioni di contrattacco che
si spezzano contro il muro di fuoco dei mitragliatori nemici. Il
combattimento si svolge proprio ai limiti del confine e i fascisti sparano
senza soste e senza curarsi delle segnalazioni dei soldati svizzeri che
sono pure costretti a difendersi. Non vi è più possibilità di
resistenza e chi è ancora in condizioni di farcela si porta al di la del
confine; fra questi ultimi vi è anche il valoroso Marescotti che si è
battuto per alcune ore incitando i suoi compagni alla lotta e, proprio
appena superato il confine, il giovane ufficiale viene abbattuto da una
raffica di mitra; corre verso di lui, l'amico ing. Garbagli di Craveggia,
ma non vi è più nulla da fare: Marescotti muore nelle braccia dell'amico.
Durante la battaglia si distingue, per grande coraggio, anche il
comandante di reparto Adriano Bianchi che, nel tentativo di sottrarre
dalle mani del nemico il diciannovenne Renzo Cohen (di origine ebraica,
rientrato da pochi giorni dalla Svizzera e arruolatosi nella "Perotti"),
gravemente ferito, viene colpito a morte.
Finalmente, il tenente svizzero Franzoni, urlando a
squarciagola, riesce, da casa Tarabori, ad indurre i fascisti a cessare il
fuoco. L'ufficiale fascista, Violante pretende che gli svizzeri gli
consegnino i partigiani espatriati (compreso il caduto Marescotti e i
feriti). Il capitano Bernasconi, ben sapendo di trovarsi di fronte a gente
senza scrupoli e di avere pochi uomini a disposizione, prende tempo e
riesce a portare il termine della tregua alle 6 del mattino seguente,
giovedì 19 ottobre. Evidentemente il cap. Bernasconi conta sull'arrivo
di rinforzi richiesti al Comando di Brigata di Bellinzona, rinforzi che
raggiungono il confine per tempo. I due plotoni di soldati dotati di armi
automatiche leggere e pesanti e una compagnia di granatieri presidiano per
un tratto il confine. Il capitano fascista, rinfoderato il tono arrogante
assunto nei primi contatti con il cap. Bernasconi, si ritira asserendo
«riferisco al mio comandante tedesco».
La colonna nazifascista lascia Bagni di Craveggia
trascinandosi dietro alcuni partigiani fatti prigionieri. Anche Dario
Casanova "Sappa", partigiano della "Battisti", è fra i
prigionieri; viene sottoposto dai fascisti a botte e a inaudite torture
finché rimane esanime nelle braccia dei suoi carnefici. Renzo Cohen, pure
gravemente ferito, riesce a sottrarsi alle ricerche del nemico e viene
raccolto in terra italiana dai soldati svizzeri, ma muore all'ospedale
della Carità di Locarno.
I muri della casa della valligiana Aida Tarabori
portano i segni dei colpi sparati dai militi della "Folgore" e
della "X Mas".
LA "CRISTINA" PORTA TERRORE - Biandrate, 23 ottobre 1944
Caduti: Giovanni Besati, Sereno Risotti
Passatempo quotidiano della teppaglia fascista è lo
scorrazzare, predando ed assassinando, nella campagna del Basso e Medio
Novarese. Tra i reparti, quello che si distingue in ferocia è la
Squadraccia di Pasqualy e di Martino, ma, comunque, altre bande nere
seminano terrore e morte. La brigata nera "Cristina", ad
esempio, è certo una delle bande nere che compie le azioni più feroci.
Lunedì 23 ottobre: l'orologio del campanile di
Biandrate annuncia il mezzogiorno. Un reparto della "Cristina",
comandato da certo Vunein, irrompe in paese alla ricerca di due giovani,
Sereno Risotti e Giovanni Besati, Il Risotti nato a Biandrate nel 1923, è
studente in legge presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore; già
in servizio militare al Comando Presidio Germanico di Novara, ha
disertato. Il Besati, nato a Biandrate nel 1923, è operaio apprendista
presso un'officina ortopedica di Novara; presta servizio militare presso
un reparto di Torino; poi viene inviato a Trento dove è sottoposto a
intervento chirurgico. Il giovane Besati può trascorrere il periodo di
convalescenza a Biandrate; richiamato in servizio per essere inviato in
Germania, non si presenta e rimane nascosto in paese.
Quel mezzogiorno del 23 ottobre, quando i militi della
"Cristina" entrano in Biandrate, le strade sono deserte. Besati
è sulla strada di casa quando si accorge del sopraggiungere dei fascisti,
il giovane operaio allunga il passo, ma, vistosi inseguito e colto da
giustificata paura, infila, malauguratamente, il portone di casa del
coetaneo e amico Sereno Risotti. I due amici si rifugiano, attraversando
il cortile che si trova sul retro della casa, nella cella frigorifera
della fabbrica del ghiaccio di proprietà dei coniugi Ambrogio e Giacomina
Invernizzi. I militi della "Cristina", dopo avere inutilmente
ricercato i due giovani nell'abitazione del Risotti, si portano nel
caseggiato attiguo e sottopongono i coniugi Invernizzi a un duro
interrogatorio. Ambrogio e Giacomina Invernizzi fanno presente di essere
completamente all'oscuro della presenza di due estranei nella loro
proprietà, ma, sottoposta a tortura, la donna cede ed è costretta a
rivelare il rifugio del Besati e del Risotti. I due giovani vengono
catturati, trascinati e spinti a calci e a pugni sulla strada provinciale
per Novara e ferocemente bastonati; le gambe di Giovanni e di Sereno sono
spaccate in più punti.
Senza alcun processo, viene costituito il plotone d'esecuzione,
poi
le raffiche di mitra. Giovanni Besati cade, fulminato; Sereno
Risotti riesce ancora a chiamare con un filo di voce, la mamma.
Il comandante del reparto "Cristina" sta
consumando un panino, ma vuole dare il colpo di grazia,
una raffica di
mitra e anche Sereno va a raggiungere la grande schiera dei martiri.
Sono le 12.30 di lunedì 23 ottobre. Un bimbo di cinque
anni, Giorgio Doria, è lì a pochi passi dal luogo della tragedia. Ancora
oggi, Giorgio non sa trattenere le lacrime al ricordo del tragico
episodio.
SEVIZIATI E IMPICCATI - Castelletto di Momo, 23-24 ottobre 1944
Caduti: Giovanni Erbetta, Pietro Protasoni, Mario Soldà, Sikor Tateladze
Sebbene in provincia di Novara, da tempo, sia in
attività il SIMNI (il servizio informazioni Nord Italia, creato e guidato
da Giorgio Migliari Aminta "Grigio" di Gozzano),
"Cino" Moscatelli, il commissario delle formazioni garibaldine
valsesiane e dell'Alto Novarese, si rivolge al prof. Piero Fornara per
chiedere di mettergli a disposizione un proprio servizio informazioni. Per
organizzare tale servizio Cino invia due suoi partigiani: Germano Bertona
a cui il "professore" trova un posto di garzone presso la
pasticceria Ricciarelli, in corso Cavour a Novara e Mario Soldà di Pogno,
che viene sistemato come stalliere presso la cascina dei fratelli Natali
(parenti di Fornara) ad Orfengo di Casalino. Presso la cugina Renza
Ferrarsi Sguazzino, il "professore" ha già collocato, come
domestica, la "Clementina di Pettenasco" messagli a disposizione
da "Giorgio". Ricorda il prof. Fornara: «Mario Soldà ha
una fidanzata che si chiama Maria, di Borgomanero, una bellissima
figliola, una ragazza di vent'anni dal volto botticelliano, con quei
visi lunghi come quelli che dipingeva Botticelli e che noi medici
chiamiamo faccia adenoidea. La Maria, due volte alla settimana, raccolte
le informazioni da Mario Soldà, con il quale abita nella cascina di
Orfengo, e da Germano Bertona, le porta all'Osteria dell'Angelo di
Ghemme, in bicicletta».
Ma il 23 ottobre, il Soldà viene arrestato al
Ristorante "La Cupola" in via Gaudenzio Ferrari a Novara e cade
proprio nelle mani della "Squadraccia", la banda fascista agli ordini del
Capo della Provincia, Vezzalini, comandata dal questore Pasqualy e dal
boia Martino. Il giovane informatore viene tradotto all'Albergo Unione
(in piazza della Prefettura) e, nella stessa notte, viene sottoposto a
feroci torture: «gli cavano prima l'occhio destro e poi quello
sinistro, da vivo, con la punta del pugnale».
Nella mattinata del 24 ottobre la "Squadraccia" si porta
nella zona di Momo per una delle consuete scorribande che si concludono
con saccheggi, distruzioni, incendi, torture e assassinii. Questa volta le
cose vanno diversamente perché non è possibile tagliare la corda dinanzi
agli uomini di "Andrei" e di "Taras" e, nello
scontro, la "Squadraccia" ha la peggio e prima di potersi sganciare perde
sei militi, mentre il boia Martino riporta una leggera ferita. Rientrato a
Novara, il boia prepara la vendetta; si fa medicare all'Ospedale
Maggiore, preleva Mario Soldà, già torturato, e dal carcere il
partigiano Erbetta, quindi con la "Squadraccia" riprende la via per
Castelletto di Momo.
L'anziano parroco di Castelletto di Momo, don Enrico
Bacchetta, nativo di Gattico, testimone al processo Vezzalini, ricorda: «Il
24 ottobre, alle 20,15 pomeridiane, sento una sparatoria fuori del paese e
questa dura circa due ore, il questore e il federale danno l'ordine di
bruciare tutte le case e , naturalmente anche la casa del parroco e la
Chiesa, perché, dice un giovanotto di 15 anni, voi preti siete
responsabili di tutte queste cose, quindi la vostra Chiesa deve essere la
prima ad essere bruciata e voi il primo ad essere ucciso». Il
parroco viene trascinato dinanzi a Pasqualy che urla al sacerdote «dovrei
uccidervi, non vi uccido, dite però ai vostri colleghi che ogni qualvolta
ospiteranno dei partigiani anche i loro paesi saranno bruciati come il
vostro».
Il parroco chiede di poter assistere i feriti e dare
sepoltura ai morti, ma il Questore sempre con tono strafottente ribatte:
«Non abbiamo bisogno della vostra assistenza. Potrete portare al
cimitero i morti quando noi saremo partiti».
Don Bacchetta, sempre nel corso del processo Vezzalini,
afferma che non vi può essere alcun dubbio sul fatto che «incendio
ed eccidio siano stati preparati da parecchi giorni» e continua
il parroco, «appena fucilati vado sul posto e li trovo ancora
caldi». Pietro Protasoni, trovato in possesso di un lasciapassare
dei partigiani, «viene buttato a terra, preso a pugni e a calci e
mitragliato».
Infine, ricorda don Bacchetta: «al cecoslovacco
Sikor Tateladze impiccato, credo impiccato ancora vivo, a colpi gli hanno
deformato la faccia,
il Soldà e quelli che sono a terra hanno parecchie
ferite
».
Ingenti sono i danni arrecati al paese saccheggiato e
con numerose case date alle fiamme.
ECCIDIO DEL 24 OTTOBRE 1944 - Novara, Piazza Crispi (ora Piazza Martiri), Piazza Cavour
Caduti: Lodovico Bertona, Aldo Fizzotti, Giovanni Bellandi, Vittorio Aina,
Mario Campagnoli, Emilio Lavizzari, Giuseppe Piccini
Fra i più atroci crimini perpetrati dalla "Squadraccia"
(un'accolita di delinquenti al servizio del boia Martino) dobbiamo
annoverare quelli compiuti in Novara il 24 ottobre 1944.
In quel pomeriggio rientrava la "Squadraccia" da
Castelletto di Momo in cui per rappresaglia, a seguito di una scaramuccia
da cui Martino era uscito con una leggera ferita a un braccio, erano stati
assassinati quattro partigiani e saccheggiato e dato alle fiamme alcune
case.
Con gli sgherri vi era pure il Questore di Novara
Pasqualy. Il torpedone si fermava dinanzi al Castello Sforzesco.
Scendevano Pasqualy e Martino che si precipitavano dal Direttore delle
Carceri per ordinargli l'immediata consegna di alcuni partigiani o
"politici".
Il Direttore rispondeva con un netto rifiuto. Anche il
Procuratore, a cui i due figuri si rivolgevano, non acconsentiva alla loro
richiesta. I rifiuti non scoraggiavano i boia che, assetati di sangue,
rientravano nelle carceri e, rinchiuso il direttore nell'Ufficio,
prelevavano dalle celle, con le armi in pugno, i patrioti Lodovico Bertona,
Aldo Fizzotti, e Giovanni Bellandi.
Bertona e Fizzotti, arrestati nel settembre perché
sospetti partigiani, erano stati assolti in istruttoria dal Tribunale
Militare di Torino. In Piazza Crispi, già Vittorio Emanuele ora Martiri
della Libertà, ove alcuni mesi prima erano stati assassinati Natale
Olivieri e Felice Zanon, venivano trascinate nuove vittime. I tre patrioti
venivano bastonati a sangue e quindi fucilati.
Ma la "Squadraccia" non era sazia di sangue. Usare le
armi contro inermi era lo stile mussoliniano e la "Squadraccia" era il più
vivo e triste esempio di questo stile.
Le uniche attività di questo reparto di polizia
repubblichina erano i rastrellamenti dei renitenti rifugiatisi nei
cascinali del Basso Novarese, gli interrogatori di terzo grado, le
bastonature, le torture, le sevizie, gli incendi, i ricatti e le taglie,
gli assassinii. Sarebbe sufficiente dare lettura delle disposizioni
testimoniali contro gli individui che facevano parte della
"Squadraccia" per inorridire al racconto delle loro imprese.
Ebbene, la "Squadraccia" non era soddisfatta degli
assassinii compiuti nella giornata a Castelletto di Momo e in Piazza
Crispi a Novara. Gli sgherri, rientrati in Carcere, prelevano i patrioti
Vittorio Aina, Mario Campagnoli, Emilio Lavizzari e Giuseppe Piccini
annunciando che sarebbe stata loro concessa la libertà.
Caricati sul torpedone, i quattro patrioti erano
trasferiti in piazza Cavour ove, sbattuti contro il muro di cinta del
Caffè Menabrea (poi magazzini e negozi Tadini e Lambertenghi) venivano
falciati dalle raffiche dei mitra e finiti con un colpo alla nuca. Erano
le ore 19 della brumosa giornata del 24 ottobre 1944.
Durante la notte i corpi dei patrioti rimanevano
distesi lungo il marciapiede e l'alba del 25 ottobre li ritrovava
ricoperti di garofani rossi.
MOTIVAZIONE MEDAGLIA D'ARGENTO AL VALOR MILITARE A MARIO CAMPAGNOLI
Educato ai più nobili ideali, era tra i primi,
all'armistizio, ad entrare benché giovanissimo, nelle formazioni
partigiane della sua zona e ad impiegare le armi contro l'oppressore. In
tredici mesi di cruenta lotta, volontario nelle imprese più rabbiose e
temprato nel pericolo più volte impavidamente affrontato, era di fulgido
esempio per valore e patriottismo. Catturato, seviziato e condannato a
morte, affronta il plotone di esecuzione con grande fierezza al grido di
«viva l'Italia libera».
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CHI SIAMO
LA COSTITUZIONE della REPUBBLICA ITALIANA
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