FUCILAZIONE IN PIAZZA - Castelletto Ticino, 1° novembre 1944
Caduti: Giovanni Barbieri, Teresio Clari, Ernesto Colombo, Sergio Gamarra, Luciano Lagno
Il 29 ottobre i partigiani
catturano a qualche chilometro da Castelletto, nelle prime ore della sera
il sottotenente di vascello Leonardi ufficiale della "X MAS",
una delle bande fasciste impegnate nelle feroci azioni di repressione
antipartigiana. Il Leonardi viene fucilato.
I militi della "X
Mas" irrompono in Castelletto Ticino e prelevano 16 ostaggi e li
traducono alla sede GNR di Sesto Calende. Il Cap. Ungarelli comandante dei
fascisti della "X Mas" chiede e ottiene dal comandante De
Giacomo dell'"Alcazar" di Arona di poter portare a termine
l'inchiesta tesa ad individuare gli autori dell'uccisione del sottotenente
Leonardi e, nel contempo, «la cessione di un certo numero di ostaggi
da passare per le armi sul luogo del delitto». Il Cap. Ungarelli, con
un manifesto, comunica alla popolazione di Castelletto Ticino che sarà
eseguita «la più spietata e feroce delle violenze».
Il 1° novembre 1944: una
pioggia uggiosa intristisce il giorno di Tutti i Santi, ma il ritorno del
reparto della "X Mas" guidato dal cap. Ungarelli affligge
maggiormente i castellettesi, costringendoli a portarsi sul piazzale del
piccolo porto; chi cerca di sottrarsi viene spinto, con le canne delle
pistole o dei mitra puntate alla schiena, verso il luogo in cui vi è
attesa, con altri militi, il cap. Ungarelli; anche dai treni in sosta
vengono fatti scendere e convogliati verso la piazzetta dell'imbarcadero
tutti i viaggiatori. Da un grande motoscafo vengono fatti scendere sei
partigiani catturati nel corso di un rastrellamento nel Basso Vergante e
trattenuti nel sinistro "Alcazar" di Arona.
I sei partigiani,
trascinati giù dal motoscafo con le mani legate dietro la schiena, con i
volti tumefatti e i vestiti lacerati, avanzano verso il punto della piazza
indicato dai militi. Allineati di fronte alla popolazione e al plotone
d'esecuzione intonano, con voce ferma, la canzone partigiana «che
importa se ci chiaman banditi, il popolo conosce i suoi figli». Il
Cap. Ungarelli dà lettura della sentenza di morte: «Io
cap. Ungarelli della X Mas, condanno a morte mediante fucilazione alla
schiena questi sei banditi, volgari delinquenti comuni».
La popolazione cerca di
rompere i cordoni, si agita, urla parole di disprezzo contro il capitano,
tanto da costringere l'Ungarelli ad emettere una nuova motivazione alla
sentenza di morte aggiungendo: «Faccio grazia al minore di essi che
verrà inviato ai lavori obbligatori in Germania». Boca, il ragazzo
graziato, non appena slegato dalla sedia, sfugge al controllo dei suoi
custodi e corre ad abbracciare i suoi sventurati compagni; ripreso, Boca
viene trascinato via.
I condannati a morte
riprendono a cantare e numerosi sono i castellettesi ad unirsi al loro
canto.
È giunto il momento; il
plotone d'esecuzione è in posizione...., l'ordine di «fuoco»...
la scarica dei mitra.
Il rapporto ufficiale dice:
«Letta la sentenza e prima dell'ordine di fuoco, gridano "Viva
L'Italia, viva i partigiani"». Luigi Barbieri, si dice nel rapporto
ufficiale, «viene finito dall'Ungarelli che continua a sparargli sul
viso dopo la fucilazione». Il cap. Ungarelli, prima di lasciare
rientrare i castellettesi alle loro case, urla ancora «Questo è il
primo tributo per l'assassinio del nostro camerata».
Lettera alla madre di
Sergio Gamarra, fucilato di Castelletto Ticino
Cara mamma,
oggi è giunta la mia
ultima ora ma non mi importa di morire. Perdonami se ho mancato, se sono
andato via senza il tuo permesso, ma muoio contento come un buon cristiano
e un vero italiano.
Salutami tutti gli amici e
parenti e i vicini. Non arrabbiarti con nessuno.
Ricevi un grosso bacio e
così pure ai fratellini e alla zia Nenè.
Tuo per sempre
Sergio
PONTEMAGLIO - 8-11 novembre 1943
Caduto: Ambrosini Giuseppe
Pontemaglio, poche case sul
fondo della valle Antigorio, frazione di Crevoladossola, ospita tanti che
tentano di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Tra questi ci
sono ex militari, anziani antifascisti, giovani che si cercano e si
trovano per unirsi, armarsi e dare inizio alla lotta di liberazione. Tre
dei tanti arrivati a Pontemiglio, fanno presto a legare con la gente della
piccola frazione di Crevoladossola. Uno, il più anziano, è un noto
anarchico, già combattente nelle file antifasciste, perseguitato dal
fascismo, impiegato tecnico alla Innocenti, sempre pronto a battersi
contro il nemico di sempre: è Mario Munegina, "Cap. Mario", il
più giovane è suo figlio e il terzo è uno slavo che li ha seguiti.
In breve tempo i tre
"ospiti" sono in possesso di fucili e di pistole e già si danno
da fare per organizzare un nucleo di resistenza armata. Nei primi giorni
di novembre (dall'8 all'11) insorge Villadossola e vi è in ogni strada
della valle un via vai di automezzi e motocarozzette carichi di nazisti. I
tre di Pontemaglio, si appostano sopra la galleria e, armati di fucile e
bombe a mano, attendono l'arrivo di qualche mezzo carico di soldati
nemici. L'attesa non è lunga: da Baceno scende una camionetta su cui
viaggiano quattro tedeschi con le armi puntate verso la montagna nel
timore di una imboscata. Non appena i tedeschi sono a tiro, i Muneghina e
lo slavo fanno fuoco e colpiscono tre nemici (un morto e due feriti); il
quarto riesce a sottrarsi al fuoco dei partigiani dandosi alla fuga.
Il giorno dopo, a
pomeriggio inoltrato, Pontemaglio è invaso dai nazifascisti che hanno
raggiunto la località con diversi automezzi. L'ufficiale più elevato in
grado, ad alta voce legge su un foglio che gli porge un sottufficiale,
cognome e nome ed indirizzo di Giuseppe Ambrosini, il proprietario della
casa che ospita i tre partigiani: è il frutto di una spiata. La casa
dell'Ambrosini viene data alle fiamme, Giuseppe Ambrosini, viene
prelevato, ferocemente picchiato e, quindi trasportato sul ponte del Toce.
Poi vi è un ripensamento, il prigioniero viene ricaricato sulla
camionetta e trasportato altrove.
Per lungo tempo, di
Giuseppe Ambrosini non vi sono notizie. Casualmente, quaranta giorni dopo,
gente di Crevoladossola trova il corpo di Giuseppe Ambrosini, ormai
decomposto, avvinghiato alla base di un albero sul greto del torrente
Diveria, poco lontano dalla strada che porta a Varzo.
I valligiani che raccolgono
la salma per seppellirla nel piccolo cimitero della borgata, si avvedono
del foro alla nuca, un solo colpo, mortale.
AVANZI DI GALERA - Ghemme, 14 novembre 1944
Caduto: Peppino Serazzi
Nell'ottobre del '44 un
reparto della "Volante loss" attacca la caserma di Fara, cattura
sette militi e fa un grosso bottino di armi. Mentre i partigiani sono
sulla via del ritorno, vengono attaccati sulla piazza del Paese, da
settanta brigatisti neri della "Squadraccia" del prefetto di Novara. I
garibaldini, pur circondati, non si perdono d'animo, si impegnano nel
combattimento e riescono ad aprirsi un passaggio in direzione di Sizzano.
Nello scontro i brigatisti
neri hanno la peggio, hanno gravi perdite, ma si ripagano con le azioni di
rappresaglia. Daranno testimonianza della feroce azione fascista i parroci
di Briona, don Luigi Lodigiani, di Fara, don Giovanni Francioni: le
distruzioni superano un milione di danni; entro ventiquattr'ore si deve
pagare una taglia di ottocentomila lire; numerose buste vengono riempite
d'oro (catenelle, preziosi rubati alla milizia); nell'abitazione di don
Francioni, i militi fanno razzia di salame e roba del genere; viene
bruciato l'Albergo dei Quaranta.
Il ventenne novarese
Peppino Serazzi fa parte di quella compagnia di garibaldini che danno filo
da torcere ai militi del presidio di Fara.
Nei primi giorni di
novembre, nel corso di un'azione, Peppino viene ferito ad un ginocchio,
sottratto alla cattura e portato dai compagni all'ospedale di Ghemme dove
viene immediatamente sottoposto a un intervento chirurgico e quindi viene
riportato all'accampamento. La mancanza di un medico, i continui
spostamenti, convincono i garibaldini a ricoverare nuovamente Peppino
all'Ospedale di Ghemme. Due partigiani si incaricano di trasportare
Peppino fino al margine del Paese, poi devono lasciarlo andare da solo,
per evitare di attirare, in tre, l'attenzione dei fascisti.
Peppino Serazzi indossa un
vestito civile e pensa di potercela fare anche se zoppica vistosamente.
Viene avvistato dai militi
e portato Comando di presidio di Sizzano. Qui viene legato su di una sedia
mani dietro la schiena, interrogato e sottoposto a feroci torture, ma gli
aguzzini non riescono a farlo parlare; Peppino Serazzi non cede, non
parla. Pur con il fisico distrutto, Peppino Serazzi vince la sua ultima,
grande battaglia, la vince senza armi, con il silenzio, anche dinanzi al
plotone di esecuzione.
A Ghemme, in località
"Fornace", il giovane Peppino Serazzi viene fucilato. E' il 14
novembre 1944.
L'ultima lettera a Franca
Cara Franca,
Ti prego voler salutare
tutti gli amici e vicini di casa e dire che i partigiani la paura non
sanno che cosa sia; i caduti sappiamo vendicarli combattendo e non
massacrando e incendiando come loro; forse presto verremo a Novara....
Peppino
W L'ITALIA LIBERA
saluti al Cupolone
SEVIZIATA E TRUCIDATA - Cambiasca, 14 novembre 1944
Caduta: Augusta Pavesi
In occasione di un feroce
rastrellamento nazifascista del giugno 1944, Augusta si presenta al
Comando della formazione partigiana "Valgrande Martire", dove
viene arruolata come staffetta e informatrice. Dimostra subito la sua
abilità nel raccogliere informazioni sui movimenti delle truppe nemiche e
trasmetterle tempestivamente al Comando partigiano.
Augusta, che è una
bella figliola, riesce sovente ad introdursi in campo nemico e a
raccogliere le confidenze di ufficiali repubblichini.
Augusta è coraggiosa, ma la giovane età la
rende anche temeraria; troppo sovente si reca a Verbania; la sua presenza
in prossimità dei comandi fascisti e i suoi "colloqui" vengono
segnalati da spie.
Augusta viene seguita e
viene individuata anche la sua casa a Cambiasca. In un giorno di fine
ottobre la giovinetta viene catturata durante una breve visita al padre.
Augusta Pavesi viene tradotta in un primo tempo, al Comando fascista di
Intra dove viene torturata, poi, tradotta alla sede del Comando di Novara,
viene nuovamente torturata ed orrendamente seviziata. Il corpo martoriato
della giovinetta di Cambiasca viene ritrovato, qualche tempo dopo, nel
Torrente Agogna nei pressi di Novara.
VITTIME DELLA FEROCIA DI VEZZALINI - Gozzano, 16-19 novembre 1944
Caduti: Mario Motta, Giuseppe Fava
Gozzano, il capoluogo della
riviera meridionale del lago d'Orta, fin dall'inizio della resistenza
armata ha un movimento patriottico assai attivo: centri di raccolta,
centri di informazione e di guida, case ospitali sono a disposizione degli
ex prigionieri alleati e degli ebrei in fuga, degli ex militari che
vogliono raggiungere il confine o le bande partigiane. Numerose sono le
famiglie meta e rifugio di partigiani e di loro staffette. Fra i
collaboratori attivi vi sono i fratelli Leli e Mario Motta. Le case di
Gozzano e di Pella dei fratelli Motta sono punto di sosta soprattutto per
l'arch. Filippo Maria Beltrami, il "Capitano" che guida la
formazione nata nel settembre del '43 sopra le Quarne, e per i suoi
uomini.
Nel novembre, il capo della
Provincia, Vezzalini, ordina l'arresto dell'ing. Motta; è una squadra
della "Folgore" che procede all'arresto. È ancora Vezzalini che
telefona al presidio di Gozzano «per dare l'ordine di sopprimere
l'ing. Motta».
Il 16 novembre, i
carcerieri comunicano all'ing. Motta che è giunto l'ordine di rilasciarlo
e che verrà accompagnata da una scorta alla propria abitazione al fine di
evitargli spiacevoli incidenti.
L'ing. Motta viene vilmente
trucidato, si legge in un rapporto dell'epoca, «sulla strada di
Bolzana Novarese- Novara, a 300 metri dal bivio per Domodossola. Esecutori
sono il sottotenente Bianchi...un sergente ed un altro».
Alcuni giorni dopo
l'assassinio dell'ing. Mario Motta, è la volta di una staffetta del
"SIMNI" (Servizio Informazioni Militari Nord Italia) a cadere
nelle mani del nemico. Si tratta di Giuseppe Fava, operaio presso lo
stabilimento Bemberg di Gozzano, informatore e staffetta al servizio del
SIMNI, comandato da Aminta Migliari "Giorgio". I fascisti si
presentano al Fava vestendo la divisa garibaldina; il Fava non intuendo
l'inganno, mostra loro la tessera di appartenenza al SIMNI. Catturato,
Giuseppe Fava viene tradotto a Novara nel covo della
"Squadraccia" e lì viene sottoposto alla tortura; l'operaio-
partigiano non parla e viene barbaramente trucidato. Il 19 novembre 1944
il cadavere di Giuseppe Fava viene trovato nelle acque dell'Agogna.
L'ARDIMENTOSO PARTIGIANO "MAJO" - Invorio Inferiore, 18 novembre 1944
Caduto: Gianni Vignola
Dalla primavera del '44
numerosi sono i giovani provenienti da Milano e dalla zona occidentale
della Lombardia che salgono sulle nostre montagne per unirsi ai
partigiani.
A Gianni Vignola, uno
studente, quando raggiunge il battaglione "Bariselli", pare di
trovarsi in una qualsiasi borgata di Milano, dove tutti parlano il suo
dialetto. I partigiani hanno tutti un nome di battaglia e il
giovane Vignola assume quello di "Majo".
Il giovane "Maio"
dopo un'azione partigiana con il recupero di armi e munizioni sottratti ai
militi della GNR, non partecipa all'allegria dei compagni, si sente la
febbre addosso, frutto di una sudataccia e del freddo preso durante la
notte; all'accampamento, "Majo" viene visitato da un medico che
si mostra subito preoccupato e che consiglia i compagni di provvedere al
suo ricovero presso un ospedale o presso una famiglia che possa prestargli
le cure necessarie. Il giovane milanese viene trasportato a Ghevio ove è
ospitato da una famiglia amica che lo assiste amorevolmente. Ma lo
studente vuole tornare presto con i suoi compagni e, qualche giorno dopo,
ritenendo di avere riacquistato le forze, lascia la casa ospitale, non si
fa vedere in paese e s'inoltra nella vicina boscaglia.
Commette una grave
imprudenza; dopo breve cammino, "Majo" si sente mancare le forze
e si affloscia a pochi metri dal ciglio della strada che da Ghevio porta a
Invorio Inferiore. È il 18 novembre: una pattuglia della GNR, in servizio
di ricognizione, scopre lo studente proprio mentre sta per riprendersi; le
grida e le prime raffiche scuotono "Majo" che tenta di afferrare
l'arma cadutagli poco lontano; le raffiche dei mitra questa volta lo
investono e lo abbattono. I briganti neri non sono ancora soddisfatti; si
avventano sul povero corpo inerme, massacrandolo a pugnalate.
UN COLPO DI PISTOLA - Bieno, 19 novembre 1944
Caduto: "Carlo" Bikenti Illap
Nell'esercito nazista vi
sono pure numerosi georgiani, ucraini, e cecoslovacchi arruolati a forza
dopo l'occupazione dei loro paesi; nel corso dell'estate, interi reparti
di "stranieri" disertano, si uniscono ai partigiani o
raggiungono la vicina Svizzera.
"Carlo" è
georgiano, cioè uno di quelli che, disertate le file naziste, si è unito
ai partigiani; nella formazione "Valdossola", si dimostra subito
partigiano coraggioso e generoso; la popolazione di S. Bernardino lo
conosce perché scende sovente dall'accampamento per fare le provviste di
generi alimentari; "Carlo" è gioviale e si guadagna la simpatia
sia dei compagni di lotta, sia degli abitanti della frazione di Bieno di
S. Bernardino.
È domenica 19 novembre;
Don Antonio ha appena terminato di commentare il vangelo quando, nella
Chiesa piena di fedeli, irrompe una squadraccia di fascisti; sono alla
caccia di partigiani, "se ne fregano" del luogo sacro, dello
spavento di donne e bambini, delle esortazioni e dei rimproveri del
sacerdote. Sempre urlando e sghignazzando, con i fucili spianati, i
fascisti escono dalla Chiesa e poco lontano avvistano "Carlo"
che sta rientrando all'accampamento.
"Carlo",
accortosi in ritardo della presenza dei fascisti, tenta la fuga buttandosi
giù dal pendio che parte dal sagrato della antica Chiesa di Bieno, viene
ferito e, per non cadere vivo nelle mani del nemico, vistosi circondato,
si spara un colpo di pistola alla tempia.
L'OSTERIA DEL "TOGN" - Prato Sesia, 23 novembre 1944
Tre partigiani del plotone
guastatori della brigata garibaldina "Osella" fanno saltare un
automezzo carico di fascisti in località Rimonda, ai margini di Romagnano
Sesia. La spedizione punitiva dei fascisti parte da Borgosesia e ha come
obiettivo Prato Sesia, sulla provinciale della Valsesia, ad una decina di
chilometri dalla località di partenza. Il comandante della Compagnia
della "Muti" è il ten. Pisoni.
I militi neri fanno una
prima visita in Municipio e poi si buttano, con grande entusiasmo,
all'assalto delle abitazioni dove operano il solito saccheggio, minacciano
donne, vecchi e bambini, distruggono ciò che non si può rubare e danno
fuoco ad alcuni alloggi.
L'Osteria del Togn è il
punto di ritrovo dopo ogni incursione; lo è anche questa volta e il vino
scorre abbondante; poi riprendono le perquisizioni e il saccheggio degli
alloggi dei partigiani Alfredo Gioria, Walter Paltrinieri, Adelchi
Chiarini, Piergiorgio Gattoni, Giacomino Zaninetti, Francesco Maretti e
dei fratelli Italo e Franco Rolando. Poi le abitazioni dei partigiani, ad
esclusione di quella ove abita lo Zaninetti che viene risparmiata perché,
dice il ten. Pisoni, "si tratta di casa in affitto", vengono
date alle fiamme.
"Orgogliosi" per
il successo dell'azione, i fascisti riprendono, all'osteria del Togn, le
abbondanti bevute; la popolazione di Prato, solidale con i danneggiati, si
dà da fare per spegnere gli incendi ed evitare che le fiamme provochino
maggiori danni.
Quando arriva la corriera
di linea, i militi della "Muti", richiamati dal suono del
claxon, si precipitano fuori dall'Osteria e costringono tutti i passeggeri
a scendere e ad entrare nell'Osteria. Il ten. Pisoni non cede neppure alle
insistenze di un sacerdote che gli chiede di usare "comprensione e
umanità". Non vi può essere pietà per una popolazione che ha nella
comunità partigiani e patrioti: è la legge dei nazifascisti. L'impresa
del ten. Pisoni non finisce qui; esaltato dal "successo", dà
l'ordine di saccheggiare l'Osteria del Togn, operazione di guerra cui i
briganti neri, ai quali il vino è già montato alla testa, si apprestano
con grande perizia, e non si allontanano finché il commissario
prefettizio non gli consegna duecentomila lire "offerte" dalla
popolazione.
SU UNA PICCA, LA TESTA MOZZA - Cengio 23 novembre 1944
Caduto: Pier Angelo Parzini
I fratelli Parzini, Pier
Angelo e Pier Luigi, sono fra i giovani novaresi che, nei giorni seguenti
l'8 settembre del "43, abbandonano casa, lavoro o studi e se ne vanno
alla macchia fra i partigiani; altri si nascondono presso amici o parenti
per evitare di cadere nelle mani dei nazisti.
I renitenti alla chiamata
dovrebbero presentarsi ai centri di raccolta della Repubblica fascista,
chi non lo fa è un disertore; corrono pericoli anche i suoi famigliari,
soggetti a subire angherie e colpite dalle pesanti mani degli oppressori.
Per evitare questo, molti giovani si presentano ai centri di raccolta e
fra questi ci sono anche i fratelli Pier Angelo e Pier Luigi Parzini; essi
sono convinti di poter tagliare la corda non appena arrivati a
destinazione. Purtroppo, però, destinati ad Aosta, vengono ben presto con
centinaia di altri giovani, rei di aver tardivamente risposto alla
chiamata fascista, caricati sulla tradotta e trasferiti in un campo di
addestramento in Germania.
Al termine del corso di
addestramento, i due fratelli Parzini, inquadrati in battaglioni alpini,
vengono rispediti in Italia. Gli ufficiali dei battaglioni degli alpini
sono ufficiali nazisti o di sicura fede fascista
Pier Angelo riesce a
convincere alcuni suoi compagni a fuggire, e con loro raggiunge la zona di
Alba-Bra; il suo nome di battaglia è "Piero l'alpino" e ben
presto viene citato come giovane intelligente e coraggioso.
"Piero l'alpino",
è tra i più attivi e coraggiosi nell'assalto al nemico asserragliato
nella roccaforte di Castelletto ed è tra i primi partigiani che, dopo tre
giorni di durissimi combattimenti, conquistano l'ultimo lembo di terra (10
ottobre - 2 novembre 1944) al piccolo stato libero di Alba nel grande arco
del Tanaro, da Ceva ad Asti. Poi più volte i fascisti tentano di passare
a guado il Tanaro, nei pressi di Mussotto, ma ogni tentativo fallisce
perché Pier Angelo e i suoi alpini non li lasciano passare. Nonostante la
lunga, accanita resistenza dei partigiani, la città di Alba, dopo
ventitré giorni di libertà, ricade, la sera del 2 novembre, nelle mani
del nemico.
Anche "Piero,
l'alpino", il generoso studente universitario novarese, è costretto,
con i suoi fedeli compagni, ad abbandonare la città di Alba che si svuota
perché la popolazione ha paura delle rappresaglie del nemico. Poi la
battaglia continua nelle Langhe e, sempre combattendo, ritroviamo a Cengio,
nel Savonese, Pier Angelo Parzini. Ma è l'ultima volta; il giovane
partigiano viene catturato dai nazisti, torturato e trucidato.
Il comandante
"Mauri" convoca, come di consueto, i comandanti della 1^ e 2^
divisione Langhe e fa loro notare che, per la prima volta, manca
all'appello "Piero l'alpino" quindi riferisce che è stato
«catturato dai tedeschi; per due ore le SS lo hanno sottoposto alle
torture più atroci, poi gli hanno troncato il capo e hanno portato in
giro, su una picca, la testa mozzata come un trofeo».
PLOTONE D'ESECUZIONE FASCISTA - Omegna, 26 novembre 1944
Caduti: Nando Menegola, Ferdinando Rota, Carlo Signini
Il 26 novembre del
'44, al tocco, un partigiano, proveniente da via Manzoni, in
bicicletta, imbocca via Mazzini e si trova di fronte, a pochi metri, una
pattuglia tedesca che compie il servizio di ronda: armato di mitra il
partigiano omegnese non ha alcuna esitazione, spara una raffica e ferisce
uno dei militi della pattuglia, poi si da alla fuga e ripara presso una
zia che abita alla periferia del capoluogo cusiano.
Omegna viene messa in stato
d'assedio; il Comando del presidio nazista, che occupa i locali delle
scuole comunali di via De Amicis, da inizio alla "caccia al
partigiano", ma le ricerche hanno esito negativo.
Il comandante nazista
prende la decisione di fucilare tre ostaggi nel caso che il partigiano
responsabile del ferimento del soldato nazista non si presenti
spontaneamente. Si rende inutile l'intervento di don Giuseppe Annichini
perché il comandante nazista non vuole prestare attenzione alle ragioni
avanzate dal sacerdote, ed è irremovibile. È domenica, i locali pubblici
vengono sgomberati e la gente è costretta ad ammassarsi in piazza del
Municipio. Dalla roccaforte di Gravellona Toce si porta ad Omegna un carro
armato seguito da una camionetta carica di fascisti; ciò accresce la
paura nella popolazione. I tre condannati a morte, Nando Megola di anni
20, Ferdinando Rota di 21, operaio, e Carlo Signini di 39, padre di due
bambine, operaio, tutti della divisione alpina "F. M. Beltrami",
vengono prelevati dal carcere e trasportati nella piazza antistante il
municipio di Omegna.
La sentenza viene
pronunciata dal comandante nazista, l'esecuzione della "condanna a
morte mediante fucilazione" viene effettuata da un plotone composto
da fascisti. Agonizzante, uno dei tre partigiani viene "finito"
da un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo sul viso da un giovanissimo
teppista "nero". Il comando nazista autorizza don Giuseppe
Annichini a provvedere al funerale.
LA BATTAGLIA DI SUNO - Suno, 27 novembre 1944
Bollettino di guerra n. 126 straordinario
Parte della relazione di
una brillante azione condotta da reparti delle brigate garibaldine
"Osella" e "Loss", anche questa volta, la risposta
fascista è rappresaglia.
«Verso le otto del mattino
(27/11/44) viene segnalato al comandante del plotone, III° battaglione
della brigata "Osella", che nella stazione di Baraggia di Suno
sono giunti un centinaio di nemici scortati da un treno blindato. Un
camion e tre macchine nemiche che tentano di avanzare vengono attaccati
dalla postazione della "Loss" che, ottenuti concreti risultati,
si ritira sul Montecchio.
Nell'abitato di Suno sono
ora presenti sei nostri uomini; uno viene inviato a Montecchio a chiedere
l'appoggio di una pesante alla "Loss" mentre gli altri cinque
rimangono in paese per individuare ed attaccare il nemico che nel
frattempo ha raggiunto le prime case di Suno provenendo dalla stazione. Un
nostro fuciliere scelto, piazzatosi con fucile e cannocchiale, apre il
fuoco ottenendo risultati evidenti. Sempre dalla stessa strada, cerca di
entrare in paese un camion blindato, ma otto colpi del fucile a
ripetizione nel parabrezza bloccano l'automezzo.
Si sviluppa una furiosa
battaglia con un susseguirsi di attacchi che si concludono sempre a
vantaggio dei nostri valorosi. Nel pomeriggio giunge una squadra di
rinforzo della "Loss" con un pesante che apre il fuoco sulla
torretta del castello. Il nemico, al tramonto, è costretto a ritirarsi
dopo aver incendiato due cascinali e prelevato, quali ostaggi , due donne
anziane ed un ragazzo di 17 anni.
"I PATRIOTI NON TI DIMENTICHERANNO" - Omegna, 30 novembre 1943
Caduto: Luciano Masciadri bimbo di 5 anni
Nella formazione dei gruppi
di giovani volontari nelle file partigiane dei comandanti
"Capitano" Beltrami e "Cino" Moscatelli intervengono
le prime difficoltà in merito agli approvvigionamenti di cibo, munizioni,
vestiario, scarpe e qualche coperta per difendersi dal freddo delle
interminabili notti di novembre. I due comandanti si incontrano per
conoscersi e accordarsi sulla reciproca futura collaborazione. Nella
stessa serata, mentre si ricordano le azioni dell'uno e dell'altro gruppo,
sorge l'idea di una temporanea occupazione "dimostrativa" (nel
contempo utile per il recupero di armi) di Omegna. Tramite staffette,
viene dato immediatamente avviso ai collaboratori che operano nel
capoluogo del Cusio affinché informino la popolazione. La prima
"calata" in Omegna, così come progettato, si effettua nelle
prime ore del mattino del 30 novembre.
La pattuglia garibaldina di
"Cino" e una cinquantina di uomini del "Capitano", con
alla testa i due comandanti entra in Omegna e si portano nella piazza
centrale già affollata mentre continua ad affluire gente da ogni strada.
Omegna assume l'aspetto di una città in festa; l'entusiasmo della
popolazione, l'affetto verso i partigiani dimostrano con battimani,
abbracci, strette di mano, con tanti e tanti doni (viveri, calzettoni,
scarpe, vestiti ecc.) con cui si riempiono due grossi autocarri. Dopo aver
prelevato con l'aiuto degli operai dello stabilimento Inuggi armi e
munizioni, vengono prelevati alcuni capoccia del fascio locale e, tra gli
altri, Manlio Zurlo, commissario del partito fascista repubblichino di
Omegna.
Il "Comandante" e
" Cino" dal cassone di un autocarro rivolgono due brevi discorsi
alla popolazione, sia per ringraziarla che per incoraggiarla a resistere e
ad aver fiducia nei partigiani intenzionati a battersi fino alla vittoria
finale.
Alle 11 di quella
indimenticabile mattinata del 30 novembre 1943 i partigiani lasciano
Omegna accompagnati dall'insistente applauso della popolazione.
Qualche ora dopo la
partenza dei partigiani, nelle prime ore del pomeriggio, rientra in Omegna
la milizia fascista. Armati fino ai denti, ancora malsicuri dopo la grande
paura, urlando per farsi coraggio nelle strade deserte, sparacchiando in
aria, contro finestre e saracinesche abbassate dei negozi, e contro
immaginari cecchini appostati dietro ogni muretto, i militi della
repubblichetta fascista di Salò avanzano nella Città vuota.
In località Ronchetti, al
di là della stazione ferroviaria, un bimbo di cinque anni, Luciano
Masciadri, sfuggito alla vigilanza della mamma, corre in cortile per
giocare. Una raffica di mitra, una delle tante sparate a casaccio, investe
il piccolo; nonostante il pronto intervento dei medici del vicino
ospedale, il bimbo muore.
Il 3 dicembre si svolgono i
funerali di Luciano, vi partecipano oltre cinquemila persone e, tra
queste, numerosi sono i patrioti. I fascisti rimangono rintanati nel
presidio. Tante sono le corone e, tra le tante, ne spicca una con un
grande nastro su cui vi è la scritta: «I Patrioti non ti
dimenticheranno».