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Calendario della Resistenza: tante date e tanti Caduti da ricordare

Comitato provinciale di Novara


La lotta partigiana nel Novarese
(attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)

Alcune date significative del mese di novembre 1944


FUCILAZIONE IN PIAZZA - Castelletto Ticino, 1° novembre 1944

Caduti: Giovanni Barbieri, Teresio Clari, Ernesto Colombo, Sergio Gamarra, Luciano Lagno

Il 29 ottobre i partigiani catturano a qualche chilometro da Castelletto, nelle prime ore della sera il sottotenente di vascello Leonardi ufficiale della "X MAS", una delle bande fasciste impegnate nelle feroci azioni di repressione antipartigiana. Il Leonardi viene fucilato.

I militi della "X Mas" irrompono in Castelletto Ticino e prelevano 16 ostaggi e li traducono alla sede GNR di Sesto Calende. Il Cap. Ungarelli comandante dei fascisti della "X Mas" chiede e ottiene dal comandante De Giacomo dell'"Alcazar" di Arona di poter portare a termine l'inchiesta tesa ad individuare gli autori dell'uccisione del sottotenente Leonardi e, nel contempo, «la cessione di un certo numero di ostaggi da passare per le armi sul luogo del delitto». Il Cap. Ungarelli, con un manifesto, comunica alla popolazione di Castelletto Ticino che sarà eseguita «la più spietata e feroce delle violenze».

Il 1° novembre 1944: una pioggia uggiosa intristisce il giorno di Tutti i Santi, ma il ritorno del reparto della "X Mas" guidato dal cap. Ungarelli affligge maggiormente i castellettesi, costringendoli a portarsi sul piazzale del piccolo porto; chi cerca di sottrarsi viene spinto, con le canne delle pistole o dei mitra puntate alla schiena, verso il luogo in cui vi è attesa, con altri militi, il cap. Ungarelli; anche dai treni in sosta vengono fatti scendere e convogliati verso la piazzetta dell'imbarcadero tutti i viaggiatori. Da un grande motoscafo vengono fatti scendere sei partigiani catturati nel corso di un rastrellamento nel Basso Vergante e trattenuti nel sinistro "Alcazar" di Arona.

I sei partigiani, trascinati giù dal motoscafo con le mani legate dietro la schiena, con i volti tumefatti e i vestiti lacerati, avanzano verso il punto della piazza indicato dai militi. Allineati di fronte alla popolazione e al plotone d'esecuzione intonano, con voce ferma, la canzone partigiana «che importa se ci chiaman banditi, il popolo conosce i suoi figli». Il Cap. Ungarelli dà lettura della sentenza di morte: «Io cap. Ungarelli della X Mas, condanno a morte mediante fucilazione alla schiena questi sei banditi, volgari delinquenti comuni».

La popolazione cerca di rompere i cordoni, si agita, urla parole di disprezzo contro il capitano, tanto da costringere l'Ungarelli ad emettere una nuova motivazione alla sentenza di morte aggiungendo: «Faccio grazia al minore di essi che verrà inviato ai lavori obbligatori in Germania». Boca, il ragazzo graziato, non appena slegato dalla sedia, sfugge al controllo dei suoi custodi e corre ad abbracciare i suoi sventurati compagni; ripreso, Boca viene trascinato via.

I condannati a morte riprendono a cantare e numerosi sono i castellettesi ad unirsi al loro canto.

È giunto il momento; il plotone d'esecuzione è in posizione...., l'ordine di «fuoco»... la scarica dei mitra.

Il rapporto ufficiale dice: «Letta la sentenza e prima dell'ordine di fuoco, gridano "Viva L'Italia, viva i partigiani"». Luigi Barbieri, si dice nel rapporto ufficiale, «viene finito dall'Ungarelli che continua a sparargli sul viso dopo la fucilazione». Il cap. Ungarelli, prima di lasciare rientrare i castellettesi alle loro case, urla ancora «Questo è il primo tributo per l'assassinio del nostro camerata».


Lettera alla madre di Sergio Gamarra, fucilato di Castelletto Ticino

Cara mamma,

oggi è giunta la mia ultima ora ma non mi importa di morire. Perdonami se ho mancato, se sono andato via senza il tuo permesso, ma muoio contento come un buon cristiano e un vero italiano.

Salutami tutti gli amici e parenti e i vicini. Non arrabbiarti con nessuno.

Ricevi un grosso bacio e così pure ai fratellini e alla zia Nenè.

Tuo per sempre

Sergio


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PONTEMAGLIO - 8-11 novembre 1943

Caduto: Ambrosini Giuseppe

Pontemaglio, poche case sul fondo della valle Antigorio, frazione di Crevoladossola, ospita tanti che tentano di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Tra questi ci sono ex militari, anziani antifascisti, giovani che si cercano e si trovano per unirsi, armarsi e dare inizio alla lotta di liberazione. Tre dei tanti arrivati a Pontemiglio, fanno presto a legare con la gente della piccola frazione di Crevoladossola. Uno, il più anziano, è un noto anarchico, già combattente nelle file antifasciste, perseguitato dal fascismo, impiegato tecnico alla Innocenti, sempre pronto a battersi contro il nemico di sempre: è Mario Munegina, "Cap. Mario", il più giovane è suo figlio e il terzo è uno slavo che li ha seguiti.

In breve tempo i tre "ospiti" sono in possesso di fucili e di pistole e già si danno da fare per organizzare un nucleo di resistenza armata. Nei primi giorni di novembre (dall'8 all'11) insorge Villadossola e vi è in ogni strada della valle un via vai di automezzi e motocarozzette carichi di nazisti. I tre di Pontemaglio, si appostano sopra la galleria e, armati di fucile e bombe a mano, attendono l'arrivo di qualche mezzo carico di soldati nemici. L'attesa non è lunga: da Baceno scende una camionetta su cui viaggiano quattro tedeschi con le armi puntate verso la montagna nel timore di una imboscata. Non appena i tedeschi sono a tiro, i Muneghina e lo slavo fanno fuoco e colpiscono tre nemici (un morto e due feriti); il quarto riesce a sottrarsi al fuoco dei partigiani dandosi alla fuga.

Il giorno dopo, a pomeriggio inoltrato, Pontemaglio è invaso dai nazifascisti che hanno raggiunto la località con diversi automezzi. L'ufficiale più elevato in grado, ad alta voce legge su un foglio che gli porge un sottufficiale, cognome e nome ed indirizzo di Giuseppe Ambrosini, il proprietario della casa che ospita i tre partigiani: è il frutto di una spiata. La casa dell'Ambrosini viene data alle fiamme, Giuseppe Ambrosini, viene prelevato, ferocemente picchiato e, quindi trasportato sul ponte del Toce. Poi vi è un ripensamento, il prigioniero viene ricaricato sulla camionetta e trasportato altrove.

Per lungo tempo, di Giuseppe Ambrosini non vi sono notizie. Casualmente, quaranta giorni dopo, gente di Crevoladossola trova il corpo di Giuseppe Ambrosini, ormai decomposto, avvinghiato alla base di un albero sul greto del torrente Diveria, poco lontano dalla strada che porta a Varzo.

I valligiani che raccolgono la salma per seppellirla nel piccolo cimitero della borgata, si avvedono del foro alla nuca, un solo colpo, mortale.


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AVANZI DI GALERA - Ghemme, 14 novembre 1944

Caduto: Peppino Serazzi

Nell'ottobre del '44 un reparto della "Volante loss" attacca la caserma di Fara, cattura sette militi e fa un grosso bottino di armi. Mentre i partigiani sono sulla via del ritorno, vengono attaccati sulla piazza del Paese, da settanta brigatisti neri della "Squadraccia" del prefetto di Novara. I garibaldini, pur circondati, non si perdono d'animo, si impegnano nel combattimento e riescono ad aprirsi un passaggio in direzione di Sizzano.

Nello scontro i brigatisti neri hanno la peggio, hanno gravi perdite, ma si ripagano con le azioni di rappresaglia. Daranno testimonianza della feroce azione fascista i parroci di Briona, don Luigi Lodigiani, di Fara, don Giovanni Francioni: le distruzioni superano un milione di danni; entro ventiquattr'ore si deve pagare una taglia di ottocentomila lire; numerose buste vengono riempite d'oro (catenelle, preziosi rubati alla milizia); nell'abitazione di don Francioni, i militi fanno razzia di salame e roba del genere; viene bruciato l'Albergo dei Quaranta.

Il ventenne novarese Peppino Serazzi fa parte di quella compagnia di garibaldini che danno filo da torcere ai militi del presidio di Fara.

Nei primi giorni di novembre, nel corso di un'azione, Peppino viene ferito ad un ginocchio, sottratto alla cattura e portato dai compagni all'ospedale di Ghemme dove viene immediatamente sottoposto a un intervento chirurgico e quindi viene riportato all'accampamento. La mancanza di un medico, i continui spostamenti, convincono i garibaldini a ricoverare nuovamente Peppino all'Ospedale di Ghemme. Due partigiani si incaricano di trasportare Peppino fino al margine del Paese, poi devono lasciarlo andare da solo, per evitare di attirare, in tre, l'attenzione dei fascisti.

Peppino Serazzi indossa un vestito civile e pensa di potercela fare anche se zoppica vistosamente.

Viene avvistato dai militi e portato Comando di presidio di Sizzano. Qui viene legato su di una sedia mani dietro la schiena, interrogato e sottoposto a feroci torture, ma gli aguzzini non riescono a farlo parlare; Peppino Serazzi non cede, non parla. Pur con il fisico distrutto, Peppino Serazzi vince la sua ultima, grande battaglia, la vince senza armi, con il silenzio, anche dinanzi al plotone di esecuzione.

A Ghemme, in località "Fornace", il giovane Peppino Serazzi viene fucilato. E' il 14 novembre 1944.


L'ultima lettera a Franca

Cara Franca,

Ti prego voler salutare tutti gli amici e vicini di casa e dire che i partigiani la paura non sanno che cosa sia; i caduti sappiamo vendicarli combattendo e non massacrando e incendiando come loro; forse presto verremo a Novara....

Peppino

W L'ITALIA LIBERA

saluti al Cupolone


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SEVIZIATA E TRUCIDATA - Cambiasca, 14 novembre 1944

Caduta: Augusta Pavesi

In occasione di un feroce rastrellamento nazifascista del giugno 1944, Augusta si presenta al Comando della formazione partigiana "Valgrande Martire", dove viene arruolata come staffetta e informatrice. Dimostra subito la sua abilità nel raccogliere informazioni sui movimenti delle truppe nemiche e trasmetterle tempestivamente al Comando partigiano.

Augusta, che è una bella figliola, riesce sovente ad introdursi in campo nemico e a raccogliere le confidenze di ufficiali repubblichini.

Augusta è coraggiosa, ma la giovane età la rende anche temeraria; troppo sovente si reca a Verbania; la sua presenza in prossimità dei comandi fascisti e i suoi "colloqui" vengono segnalati da spie.

Augusta viene seguita e viene individuata anche la sua casa a Cambiasca. In un giorno di fine ottobre la giovinetta viene catturata durante una breve visita al padre. Augusta Pavesi viene tradotta in un primo tempo, al Comando fascista di Intra dove viene torturata, poi, tradotta alla sede del Comando di Novara, viene nuovamente torturata ed orrendamente seviziata. Il corpo martoriato della giovinetta di Cambiasca viene ritrovato, qualche tempo dopo, nel Torrente Agogna nei pressi di Novara.


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VITTIME DELLA FEROCIA DI VEZZALINI - Gozzano, 16-19 novembre 1944

Caduti: Mario Motta, Giuseppe Fava

Gozzano, il capoluogo della riviera meridionale del lago d'Orta, fin dall'inizio della resistenza armata ha un movimento patriottico assai attivo: centri di raccolta, centri di informazione e di guida, case ospitali sono a disposizione degli ex prigionieri alleati e degli ebrei in fuga, degli ex militari che vogliono raggiungere il confine o le bande partigiane. Numerose sono le famiglie meta e rifugio di partigiani e di loro staffette. Fra i collaboratori attivi vi sono i fratelli Leli e Mario Motta. Le case di Gozzano e di Pella dei fratelli Motta sono punto di sosta soprattutto per l'arch. Filippo Maria Beltrami, il "Capitano" che guida la formazione nata nel settembre del '43 sopra le Quarne, e per i suoi uomini.

Nel novembre, il capo della Provincia, Vezzalini, ordina l'arresto dell'ing. Motta; è una squadra della "Folgore" che procede all'arresto. È ancora Vezzalini che telefona al presidio di Gozzano «per dare l'ordine di sopprimere l'ing. Motta».

Il 16 novembre, i carcerieri comunicano all'ing. Motta che è giunto l'ordine di rilasciarlo e che verrà accompagnata da una scorta alla propria abitazione al fine di evitargli spiacevoli incidenti.

L'ing. Motta viene vilmente trucidato, si legge in un rapporto dell'epoca, «sulla strada di Bolzana Novarese- Novara, a 300 metri dal bivio per Domodossola. Esecutori sono il sottotenente Bianchi...un sergente ed un altro».

Alcuni giorni dopo l'assassinio dell'ing. Mario Motta, è la volta di una staffetta del "SIMNI" (Servizio Informazioni Militari Nord Italia) a cadere nelle mani del nemico. Si tratta di Giuseppe Fava, operaio presso lo stabilimento Bemberg di Gozzano, informatore e staffetta al servizio del SIMNI, comandato da Aminta Migliari "Giorgio". I fascisti si presentano al Fava vestendo la divisa garibaldina; il Fava non intuendo l'inganno, mostra loro la tessera di appartenenza al SIMNI. Catturato, Giuseppe Fava viene tradotto a Novara nel covo della "Squadraccia" e lì viene sottoposto alla tortura; l'operaio- partigiano non parla e viene barbaramente trucidato. Il 19 novembre 1944 il cadavere di Giuseppe Fava viene trovato nelle acque dell'Agogna.


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L'ARDIMENTOSO PARTIGIANO "MAJO" - Invorio Inferiore, 18 novembre 1944

Caduto: Gianni Vignola

Dalla primavera del '44 numerosi sono i giovani provenienti da Milano e dalla zona occidentale della Lombardia che salgono sulle nostre montagne per unirsi ai partigiani.

A Gianni Vignola, uno studente, quando raggiunge il battaglione "Bariselli", pare di trovarsi in una qualsiasi borgata di Milano, dove tutti parlano il suo dialetto. I partigiani hanno tutti un nome di battaglia e il giovane Vignola assume quello di "Majo".

Il giovane "Maio" dopo un'azione partigiana con il recupero di armi e munizioni sottratti ai militi della GNR, non partecipa all'allegria dei compagni, si sente la febbre addosso, frutto di una sudataccia e del freddo preso durante la notte; all'accampamento, "Majo" viene visitato da un medico che si mostra subito preoccupato e che consiglia i compagni di provvedere al suo ricovero presso un ospedale o presso una famiglia che possa prestargli le cure necessarie. Il giovane milanese viene trasportato a Ghevio ove è ospitato da una famiglia amica che lo assiste amorevolmente. Ma lo studente vuole tornare presto con i suoi compagni e, qualche giorno dopo, ritenendo di avere riacquistato le forze, lascia la casa ospitale, non si fa vedere in paese e s'inoltra nella vicina boscaglia.

Commette una grave imprudenza; dopo breve cammino, "Majo" si sente mancare le forze e si affloscia a pochi metri dal ciglio della strada che da Ghevio porta a Invorio Inferiore. È il 18 novembre: una pattuglia della GNR, in servizio di ricognizione, scopre lo studente proprio mentre sta per riprendersi; le grida e le prime raffiche scuotono "Majo" che tenta di afferrare l'arma cadutagli poco lontano; le raffiche dei mitra questa volta lo investono e lo abbattono. I briganti neri non sono ancora soddisfatti; si avventano sul povero corpo inerme, massacrandolo a pugnalate.


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UN COLPO DI PISTOLA - Bieno, 19 novembre 1944

Caduto: "Carlo" Bikenti Illap

Nell'esercito nazista vi sono pure numerosi georgiani, ucraini, e cecoslovacchi arruolati a forza dopo l'occupazione dei loro paesi; nel corso dell'estate, interi reparti di "stranieri" disertano, si uniscono ai partigiani o raggiungono la vicina Svizzera.

"Carlo" è georgiano, cioè uno di quelli che, disertate le file naziste, si è unito ai partigiani; nella formazione "Valdossola", si dimostra subito partigiano coraggioso e generoso; la popolazione di S. Bernardino lo conosce perché scende sovente dall'accampamento per fare le provviste di generi alimentari; "Carlo" è gioviale e si guadagna la simpatia sia dei compagni di lotta, sia degli abitanti della frazione di Bieno di S. Bernardino.

È domenica 19 novembre; Don Antonio ha appena terminato di commentare il vangelo quando, nella Chiesa piena di fedeli, irrompe una squadraccia di fascisti; sono alla caccia di partigiani, "se ne fregano" del luogo sacro, dello spavento di donne e bambini, delle esortazioni e dei rimproveri del sacerdote. Sempre urlando e sghignazzando, con i fucili spianati, i fascisti escono dalla Chiesa e poco lontano avvistano "Carlo" che sta rientrando all'accampamento.

"Carlo", accortosi in ritardo della presenza dei fascisti, tenta la fuga buttandosi giù dal pendio che parte dal sagrato della antica Chiesa di Bieno, viene ferito e, per non cadere vivo nelle mani del nemico, vistosi circondato, si spara un colpo di pistola alla tempia.


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L'OSTERIA DEL "TOGN" - Prato Sesia, 23 novembre 1944

Tre partigiani del plotone guastatori della brigata garibaldina "Osella" fanno saltare un automezzo carico di fascisti in località Rimonda, ai margini di Romagnano Sesia. La spedizione punitiva dei fascisti parte da Borgosesia e ha come obiettivo Prato Sesia, sulla provinciale della Valsesia, ad una decina di chilometri dalla località di partenza. Il comandante della Compagnia della "Muti" è il ten. Pisoni.

I militi neri fanno una prima visita in Municipio e poi si buttano, con grande entusiasmo, all'assalto delle abitazioni dove operano il solito saccheggio, minacciano donne, vecchi e bambini, distruggono ciò che non si può rubare e danno fuoco ad alcuni alloggi.

L'Osteria del Togn è il punto di ritrovo dopo ogni incursione; lo è anche questa volta e il vino scorre abbondante; poi riprendono le perquisizioni e il saccheggio degli alloggi dei partigiani Alfredo Gioria, Walter Paltrinieri, Adelchi Chiarini, Piergiorgio Gattoni, Giacomino Zaninetti, Francesco Maretti e dei fratelli Italo e Franco Rolando. Poi le abitazioni dei partigiani, ad esclusione di quella ove abita lo Zaninetti che viene risparmiata perché, dice il ten. Pisoni, "si tratta di casa in affitto", vengono date alle fiamme.

"Orgogliosi" per il successo dell'azione, i fascisti riprendono, all'osteria del Togn, le abbondanti bevute; la popolazione di Prato, solidale con i danneggiati, si dà da fare per spegnere gli incendi ed evitare che le fiamme provochino maggiori danni.

Quando arriva la corriera di linea, i militi della "Muti", richiamati dal suono del claxon, si precipitano fuori dall'Osteria e costringono tutti i passeggeri a scendere e ad entrare nell'Osteria. Il ten. Pisoni non cede neppure alle insistenze di un sacerdote che gli chiede di usare "comprensione e umanità". Non vi può essere pietà per una popolazione che ha nella comunità partigiani e patrioti: è la legge dei nazifascisti. L'impresa del ten. Pisoni non finisce qui; esaltato dal "successo", dà l'ordine di saccheggiare l'Osteria del Togn, operazione di guerra cui i briganti neri, ai quali il vino è già montato alla testa, si apprestano con grande perizia, e non si allontanano finché il commissario prefettizio non gli consegna duecentomila lire "offerte" dalla popolazione.


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SU UNA PICCA, LA TESTA MOZZA - Cengio 23 novembre 1944

Caduto: Pier Angelo Parzini

I fratelli Parzini, Pier Angelo e Pier Luigi, sono fra i giovani novaresi che, nei giorni seguenti l'8 settembre del "43, abbandonano casa, lavoro o studi e se ne vanno alla macchia fra i partigiani; altri si nascondono presso amici o parenti per evitare di cadere nelle mani dei nazisti.

I renitenti alla chiamata dovrebbero presentarsi ai centri di raccolta della Repubblica fascista, chi non lo fa è un disertore; corrono pericoli anche i suoi famigliari, soggetti a subire angherie e colpite dalle pesanti mani degli oppressori. Per evitare questo, molti giovani si presentano ai centri di raccolta e fra questi ci sono anche i fratelli Pier Angelo e Pier Luigi Parzini; essi sono convinti di poter tagliare la corda non appena arrivati a destinazione. Purtroppo, però, destinati ad Aosta, vengono ben presto con centinaia di altri giovani, rei di aver tardivamente risposto alla chiamata fascista, caricati sulla tradotta e trasferiti in un campo di addestramento in Germania.

Al termine del corso di addestramento, i due fratelli Parzini, inquadrati in battaglioni alpini, vengono rispediti in Italia. Gli ufficiali dei battaglioni degli alpini sono ufficiali nazisti o di sicura fede fascista

Pier Angelo riesce a convincere alcuni suoi compagni a fuggire, e con loro raggiunge la zona di Alba-Bra; il suo nome di battaglia è "Piero l'alpino" e ben presto viene citato come giovane intelligente e coraggioso.

"Piero l'alpino", è tra i più attivi e coraggiosi nell'assalto al nemico asserragliato nella roccaforte di Castelletto ed è tra i primi partigiani che, dopo tre giorni di durissimi combattimenti, conquistano l'ultimo lembo di terra (10 ottobre - 2 novembre 1944) al piccolo stato libero di Alba nel grande arco del Tanaro, da Ceva ad Asti. Poi più volte i fascisti tentano di passare a guado il Tanaro, nei pressi di Mussotto, ma ogni tentativo fallisce perché Pier Angelo e i suoi alpini non li lasciano passare. Nonostante la lunga, accanita resistenza dei partigiani, la città di Alba, dopo ventitré giorni di libertà, ricade, la sera del 2 novembre, nelle mani del nemico.

Anche "Piero, l'alpino", il generoso studente universitario novarese, è costretto, con i suoi fedeli compagni, ad abbandonare la città di Alba che si svuota perché la popolazione ha paura delle rappresaglie del nemico. Poi la battaglia continua nelle Langhe e, sempre combattendo, ritroviamo a Cengio, nel Savonese, Pier Angelo Parzini. Ma è l'ultima volta; il giovane partigiano viene catturato dai nazisti, torturato e trucidato.

Il comandante "Mauri" convoca, come di consueto, i comandanti della 1^ e 2^ divisione Langhe e fa loro notare che, per la prima volta, manca all'appello "Piero l'alpino" quindi riferisce che è stato «catturato dai tedeschi; per due ore le SS lo hanno sottoposto alle torture più atroci, poi gli hanno troncato il capo e hanno portato in giro, su una picca, la testa mozzata come un trofeo».


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PLOTONE D'ESECUZIONE FASCISTA - Omegna, 26 novembre 1944

Caduti: Nando Menegola, Ferdinando Rota, Carlo Signini

Il 26 novembre del '44, al tocco, un partigiano, proveniente da via Manzoni, in bicicletta, imbocca via Mazzini e si trova di fronte, a pochi metri, una pattuglia tedesca che compie il servizio di ronda: armato di mitra il partigiano omegnese non ha alcuna esitazione, spara una raffica e ferisce uno dei militi della pattuglia, poi si da alla fuga e ripara presso una zia che abita alla periferia del capoluogo cusiano.

Omegna viene messa in stato d'assedio; il Comando del presidio nazista, che occupa i locali delle scuole comunali di via De Amicis, da inizio alla "caccia al partigiano", ma le ricerche hanno esito negativo.

Il comandante nazista prende la decisione di fucilare tre ostaggi nel caso che il partigiano responsabile del ferimento del soldato nazista non si presenti spontaneamente. Si rende inutile l'intervento di don Giuseppe Annichini perché il comandante nazista non vuole prestare attenzione alle ragioni avanzate dal sacerdote, ed è irremovibile. È domenica, i locali pubblici vengono sgomberati e la gente è costretta ad ammassarsi in piazza del Municipio. Dalla roccaforte di Gravellona Toce si porta ad Omegna un carro armato seguito da una camionetta carica di fascisti; ciò accresce la paura nella popolazione. I tre condannati a morte, Nando Megola di anni 20, Ferdinando Rota di 21, operaio, e Carlo Signini di 39, padre di due bambine, operaio, tutti della divisione alpina "F. M. Beltrami", vengono prelevati dal carcere e trasportati nella piazza antistante il municipio di Omegna.

La sentenza viene pronunciata dal comandante nazista, l'esecuzione della "condanna a morte mediante fucilazione" viene effettuata da un plotone composto da fascisti. Agonizzante, uno dei tre partigiani viene "finito" da un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo sul viso da un giovanissimo teppista "nero". Il comando nazista autorizza don Giuseppe Annichini a provvedere al funerale.


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LA BATTAGLIA DI SUNO - Suno, 27 novembre 1944

Bollettino di guerra n. 126 straordinario

Parte della relazione di una brillante azione condotta da reparti delle brigate garibaldine "Osella" e "Loss", anche questa volta, la risposta fascista è rappresaglia.

«Verso le otto del mattino (27/11/44) viene segnalato al comandante del plotone, III° battaglione della brigata "Osella", che nella stazione di Baraggia di Suno sono giunti un centinaio di nemici scortati da un treno blindato. Un camion e tre macchine nemiche che tentano di avanzare vengono attaccati dalla postazione della "Loss" che, ottenuti concreti risultati, si ritira sul Montecchio.

Nell'abitato di Suno sono ora presenti sei nostri uomini; uno viene inviato a Montecchio a chiedere l'appoggio di una pesante alla "Loss" mentre gli altri cinque rimangono in paese per individuare ed attaccare il nemico che nel frattempo ha raggiunto le prime case di Suno provenendo dalla stazione. Un nostro fuciliere scelto, piazzatosi con fucile e cannocchiale, apre il fuoco ottenendo risultati evidenti. Sempre dalla stessa strada, cerca di entrare in paese un camion blindato, ma otto colpi del fucile a ripetizione nel parabrezza bloccano l'automezzo.

Si sviluppa una furiosa battaglia con un susseguirsi di attacchi che si concludono sempre a vantaggio dei nostri valorosi. Nel pomeriggio giunge una squadra di rinforzo della "Loss" con un pesante che apre il fuoco sulla torretta del castello. Il nemico, al tramonto, è costretto a ritirarsi dopo aver incendiato due cascinali e prelevato, quali ostaggi , due donne anziane ed un ragazzo di 17 anni
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"I PATRIOTI NON TI DIMENTICHERANNO" - Omegna, 30 novembre 1943

Caduto: Luciano Masciadri bimbo di 5 anni

Nella formazione dei gruppi di giovani volontari nelle file partigiane dei comandanti "Capitano" Beltrami e "Cino" Moscatelli intervengono le prime difficoltà in merito agli approvvigionamenti di cibo, munizioni, vestiario, scarpe e qualche coperta per difendersi dal freddo delle interminabili notti di novembre. I due comandanti si incontrano per conoscersi e accordarsi sulla reciproca futura collaborazione. Nella stessa serata, mentre si ricordano le azioni dell'uno e dell'altro gruppo, sorge l'idea di una temporanea occupazione "dimostrativa" (nel contempo utile per il recupero di armi) di Omegna. Tramite staffette, viene dato immediatamente avviso ai collaboratori che operano nel capoluogo del Cusio affinché informino la popolazione. La prima "calata" in Omegna, così come progettato, si effettua nelle prime ore del mattino del 30 novembre.

La pattuglia garibaldina di "Cino" e una cinquantina di uomini del "Capitano", con alla testa i due comandanti entra in Omegna e si portano nella piazza centrale già affollata mentre continua ad affluire gente da ogni strada. Omegna assume l'aspetto di una città in festa; l'entusiasmo della popolazione, l'affetto verso i partigiani dimostrano con battimani, abbracci, strette di mano, con tanti e tanti doni (viveri, calzettoni, scarpe, vestiti ecc.) con cui si riempiono due grossi autocarri. Dopo aver prelevato con l'aiuto degli operai dello stabilimento Inuggi armi e munizioni, vengono prelevati alcuni capoccia del fascio locale e, tra gli altri, Manlio Zurlo, commissario del partito fascista repubblichino di Omegna.

Il "Comandante" e " Cino" dal cassone di un autocarro rivolgono due brevi discorsi alla popolazione, sia per ringraziarla che per incoraggiarla a resistere e ad aver fiducia nei partigiani intenzionati a battersi fino alla vittoria finale.

Alle 11 di quella indimenticabile mattinata del 30 novembre 1943 i partigiani lasciano Omegna accompagnati dall'insistente applauso della popolazione.

Qualche ora dopo la partenza dei partigiani, nelle prime ore del pomeriggio, rientra in Omegna la milizia fascista. Armati fino ai denti, ancora malsicuri dopo la grande paura, urlando per farsi coraggio nelle strade deserte, sparacchiando in aria, contro finestre e saracinesche abbassate dei negozi, e contro immaginari cecchini appostati dietro ogni muretto, i militi della repubblichetta fascista di Salò avanzano nella Città vuota.

In località Ronchetti, al di là della stazione ferroviaria, un bimbo di cinque anni, Luciano Masciadri, sfuggito alla vigilanza della mamma, corre in cortile per giocare. Una raffica di mitra, una delle tante sparate a casaccio, investe il piccolo; nonostante il pronto intervento dei medici del vicino ospedale, il bimbo muore.

Il 3 dicembre si svolgono i funerali di Luciano, vi partecipano oltre cinquemila persone e, tra queste, numerosi sono i patrioti. I fascisti rimangono rintanati nel presidio. Tante sono le corone e, tra le tante, ne spicca una con un grande nastro su cui vi è la scritta: «I Patrioti non ti dimenticheranno».


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