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Comitato provinciale di Novara
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La lotta partigiana nel Novarese (attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)
Alcune date significative del mese di marzo
- UNA FAMIGLIA PARTIGIANA - Cavagliaschi di Valduggia, 18 marzo 1944
- LA BATTAGLIA DI ROMAGNANO SESIA - 16 marzo 1945
- PERVERSITA' NAZISTA - Prezzo - Castelli Cusiani, 23 marzo 1944
- WASS IST LOS? ( CHE COSA SUCCEDE?) - Ghemme, 6 marzo 1945
- I DUE FRATELLI DI SAN MAURIZIO
- GIORNO DI FUOCO - Oleggio Castello, 13 marzo 1945
- CACCIATORI DI TAGLIE - Montrigiasco, 16 marzo 1945
- IL COMMISSARIO DELLA X "ROCCO" - Baraggia di Suno, 16 marzo 1945
- TUTE BIANCHE - Corconio di Orta, 22 marzo 1945
- ECCIDIO AL VECCHIO IMBARCADERO - Solcio di Lesa, 24 marzo 1945
- NELL'OMBRA DI UNA PIAZZETTA - Borgoticino, 24 marzo 1945
- IL COCCODRILLO NERO - Otra di Forno, 25 marzo 1945
- FUCILATI ALL'ALPE CREGNO - Quarna, 25 Marzo 1945
- SACCHEGGIO, DISTRUZIONE E MORTE - Cà Bianca di Suna, 25 marzo 1945
- L'ALBA TRAGICA DI SAN MARCELLO - Invorio, 28 marzo 1945
- LA BATTAGLIA DEL CIMITERO - Grignasco, 30 marzo 1945
- LA TRAGEDIA DEL VENERDI' SANTO - Casalino, 30 marzo 1945
- UN PARROCO RACCONTA - Bangio Anzino, 30 marzo 1945
- L'ASSASSINIO DI BENIAMINO - Cavandone, 31 marzo 1945
UNA FAMIGLIA PARTIGIANA - Cavagliaschi di
Valduggia, 18 marzo 1944
Caduti: Settimo Carniello, Italo Scolari, Angelo Valazza, Dino Velati
La famiglia Carniello viene da Legusino, un piccolo
paese in provincia di Treviso; è approdata a Grignasco nel 1926. Quella
dei Carniello è una famiglia unita, una famiglia di contadini di vecchio
stampo; il padre sgobba dall'alba alla sera per guadagnare ciò che è
strettamente necessario ad una famiglia con nove figli; mamma Teresa non
trova un momento di calma lungo la giornata. Prima della guerra, Francesco
Carniello muore, ma i figli hanno voglia di lavorare e mamma Teresa può
contare sul loro aiuto. Nel 1943 cinque figli (Giovanni, Francesco, Sesto,
Settimo e Ottavo) sono contemporaneamente sotto le armi; con mamma Teresa
rimangono a casa le figlie Clara, Fanny, Maddalena e l'ultimo maschio,
Novemio.
I Carniello mal sopportano il fascismo: Ottavo ha già
rischiato la galera per alcune parolacce rivolte all'istruttore dei
premilitari; la questione si è chiusa bene perché quattro fratelli sono
già sotto le armi e perché lui stesso è in attesa della cartolina
precetto. L'8 settembre, Giovanni, Sesto e Settimo scappano dai loro
reparti e raggiungono Grignasco, a breve distanza di tempo l'uno dall'altro.
Francesco è prigioniero in Romania: Ottavo riesce a farsi mandare a casa
in convalescenza.
Nei pressi di Grignasco vi è un campo di prigionieri
inglesi e in paese vi sono alcune famiglie di ebrei; gli uni e gli altri
devono essere aiutati per evitare che cadano nelle mani dei nazisti già
impegnati in una spietata caccia nei loro confronti. A Grignasco sono
numerosi gli antifascisti e non tarda a formarsi un primo gruppo
partigiano alla Croce del Fenera, alla cascina Spa; fra i primi, con Mario
Vinzio ("Pesgu"), vi sono i fratelli Carniello che, secondo le
necessità, si spostano dal Fenera a Grignasco; la loro casa diventa luogo
di appuntamento sia degli organizzatori che degli informatori delle
staffette.
I Carniello fanno anche da guida agli ebrei e ai
prigionieri inglesi che vogliono rifugiarsi in Svizzera. Il più anziano
dei fratelli Carniello, Giovanni, rimane a casa perché in famiglia ci sia
un uomo.
Anche Novemio va in montagna. A Grignasco si forma un
gruppetto di giovanissimi; sono ragazzi di dieci/quindici anni che formano
la banda "Memo"; si avvicinano ai fascisti, se li fanno amici,
raccolgono informazioni, fanno segnalazioni sbagliate sui movimenti dei
partigiani e, infine, sottraggono ai fascisti numerose armi che vengono
consegnate ai partigiani del Fenera.
Con il passare del tempo, Settimo Carniello ottiene il
comando di un reparto della formazione garibaldina "Osella"; il
reparto, composto da una ventina di uomini, verso la metà di marzo si
sposta nei cascinali di Cavagliaschi di Valduggia.
La zona sembra essere un'isola di pace. La
convinzione di trovarsi in una posizione defilata rispetto al nemico,
porta malauguratamente i partigiani a non prendere le normali precauzioni.
E' il 18 marzo: il partigiano Dino Velati esce dal
cascinale per prendere dell'acqua, ma dopo qualche passo viene raggiunto
al ventre da un colpo di fucile. Il reparto garibaldino è circondato;
tedeschi e fascisti hanno raggiunto le baite senza essere stati avvistati.
Il comandante Settimo Carniello esce per primo,
sparando raffiche di mitra. Viene ferito, riesce ad nascondersi nel bosco,
ma muore dissanguato, dopo ore di agonia. Vengono uccisi anche Angelo
Valazza che è abbattuto da una raffica di mitra e Italo Scolari che,
ferito, viene ucciso a colpi di pugnale.
LA BATTAGLIA DI ROMAGNANO SESIA - 16 marzo 1945
La battaglia di Romagnano
Sesia era inserita in un'offensiva partigiana, concordata dai comandi
della Zona Valsezia contro i presidi nazifascisti nei comuni di Borgosesia,
Fara Novarese e Romagnano Sesia.
A Borgosesia nella notte
tra il 15 e il 16 marzo, i partigiani sono impegnati in una cruenta
battaglia contro i nazifascisti, costringendo alla resa gli occupanti il
presidio, ormai vinti. Purtroppo il sopraggiungere di un'autoblinda
tedesca, che apre il fuoco contro il gruppo "mortai", costringe
i garibaldini alla ritirata. Cadono il comandante Giacomo Picciolo e otto
dei suoi uomini: Renato Mortasino, Armando Peretti, Mario Vandoni, il
Georgiano Churskaia Magona, Confortola Augusto, Ferrarsi Luigi, Perotti
Luigi e Allegra Giuseppe.
A Fara Novarese, nella
notte del 16 marzo, gli uomini del comandante "Moro" attaccano
il presidio fascista e nella mattinata sconfiggono il nemico, danno la
notizia tramite staffetta al comandante "Bruno" impegnato con
altri (tra i quali Giacomo Gray) nella battaglia di Romagnano. Intanto una
colonna di nazifascisti, proveniente da Novara diretta a Fara, a Briona si
scontra con reparti della "Volante Loss". I partigiani sono
costretti a ripiegare fino a creare, nella zona di Gemme, una seconda
linea di difesa. La resistenza è tale che il nemico, pur essendo di gran
lunga superiore, sia di uomini che di mezzi, deve, verso sera, ripiegare
su Fara. I garibaldini di "Moro", ancora una volta, hanno avuto
successo. Nella battaglia cadono, a Fara il garibaldino Giuseppe Sestetti
e, a Gemme, il commissario della "Volante Loss", Santino Campora.
La battaglia di Romagnano
Sesia inizia alle quattro e mezza del mattino con un intenso attacco al
presidio fascista della "Folgore" accasermato nel Collegio
Curioni, che pure è in attività: vi sono studenti, personale di
direzione e amministrativo, assistenti e addetti ai vari servizi. Il
presidio è dotato di armi pesanti e automatiche. I partigiani verso le
nove, concedono una tregua per permettere agli studenti e al personale di
allontanarsi. Si susseguono azioni di guerra e trattative per convincere
alla resa i fascisti.
La resa è richiesta dai partigiani con l'invio
di don Preti insegnante presso il Collegio Curioni. Alle 17.45 gli
ufficiali della "Folgore" fanno cessare il fuoco. I partigiani
vittoriosi, come da accordi raggiunti, fanno partire i camion carichi di
fascisti disarmati (la popolazione non era tanto d'accordo di lasciare
liberi coloro che per tanti mesi l'avevano tormentata), e lasciano
Romagnano con le armi, le munizioni e il materiale bellico sottratto ai
fascisti, per raggiungere i loro accampamenti. Lasciano purtroppo sul
campo della battaglia due partigiani e un civile: Robatti Giorgio, Beretta
Pierino e Rovelli Vincenzo. Nel rientro sulla provinciale per Borgomanero
cade nelle mani della "Folgore" il commissario della X "Rocco"
Peppino Preti che viene immediatamente trucidato a colpi di pugnale.
PERVERSITA' NAZISTA - Prezzo - Castelli Cusiani, 23 marzo 1944
Caduti: Silvio Bagnetti, Luciano Bocchinelli e Carlo Rolando
Dopo un mese dalla sfortunata battaglia di Megolo, la
gloriosa banda partigiana di F.M. Beltrami sta ricomponendosi attorno alla
compagnia di Bruno Rutto, reduce dalla vittoriosa battaglia di Ompio. Chi
ritiene ormai distrutta l'opera di F.M. Beltrami deve ricredersi: sono
molti i giovani da tutta la provincia e dalle vicine zone della Lombardia
che si raccolgono attorno a Rutto, il giovane ufficiale degli alpini, e ai
suoi ragazzi; si forma così la Divisione Alpina d'Assalto F.M. Beltrami.
L'arrivo di tanti giovani crea numerosi problemi e
occorre dare loro una sistemazione. Vi si provvede con i colpi di mano a
posti di blocco, le imboscate a pattuglie nemiche, il recupero di
materiale nascosto dai soldati fuggiti l'8 settembre dalle caserme.
Quando si tratta di rifornirsi di viveri e indumenti occorre ricorrere a
magazzini della zona, ad alcuni industriali (come Alberto Saini) che sono
generosi nei confronti dei partigiani.
Le operazioni di recupero armi e di rifornimento viveri
vengono effettuate di norma da pattuglie composte da pochi uomini che
conoscono bene la zona, che sono audaci, che agiscono con rapidità, già
esperti nelle azioni di guerriglia. E' il 23 marzo del 1944: una
pattuglia, composta da Silvio Bagnetti, Carlo Rolando e Luciano Boccinelli,
diretta a Borgomanero per il prelievo di una piccola quantità di armi,
nei pressi di Prezzo (frazione di Pogno), cade in una imboscata. I tre
giovani partigiani della ricostituendo banda Beltrami, pur essendo colti
di sorpresa da un consistente reparto nazista, oppongono un'accanita
resistenza, finché, tutti e tre, cadono gravemente feriti. Bagnetti,
Bocchinelli e Rolando vengono seviziati; i primi due muoiono nel corso
delle terribili torture. Rolando sopravvive; i nazisti legano una corda ai
piedi del giovane, ne fermano l'altro capo al paraurti di uno dei loro
autocarri. L'autocarro si muove verso Gozzano trascinandosi dietro quel
corpo già martoriato. I nazisti hanno compiuto la loro feroce azione
quotidiana.
WASS IST LOS? ( CHE COSA SUCCEDE?) - Ghemme, 6 marzo 1945
Caduti: Carmelo Ardizzoia, Frediano Bagnati, Adriano Barbero, Ernestino Boschi, Ernesto Bovio, Benami Miglio, Luigi Prandi, Pietro Sassoni, Mario Tosi, Luigi Vandoni
E' il 3 marzo del '45. Verso il tramonto compare
nel cielo un piccolo caccia tedesco, volteggia alcune volte a bassa quota
su Gemme e, infine, riesce fortunosamente ad atterrare, ai margini del
paese, su un ex campo d'atterraggio reso impraticabile dai tedeschi per
evitare che gli alleati se ne servano.
Sia il podestà Guido Crespi che il coadiutore della
Parrocchiale dell'Assunta, don Angelo Stoppa, a colloquio dinanzi ad una
finestra dello stabilimento "Secondo Salto" avvistano l'apparecchio,
ne osservano le manovre e il fortunoso atterraggio.
Podestà e coadiutore si recano immediatamente sul
luogo dell'atterraggio e si trovano di fronte al pilota che, sceso dall'aereo,
sta guardandosi attorno. Il podestà, che conosce la lingua tedesca, si
rivolge al pilota per conoscere il motivo che lo ha indotto ad atterrare
nell'ex campo militare in condizioni di impraticabilità; il pilota
spiega che, partito da Monaco e diretto a Gallarate, ha sbagliato rotta e
l'aereo è rimasto senza carburante, tanto da costringerlo ad un
atterraggio di fortuna.
Sopraggiungono due partigiani garibaldini della "Volante
Loss", invitano Guido Crespi e don Stoppa a farsi da parte; il pilota,
fatto un balzo indietro, estrae prontamente la pistola gridando «Wass
ist los?», ma è preceduto da uno dei due garibaldini che lo abbatte
con un solo colpo. Una raffica di mitra nel serbatoio provoca l'incendio
e la distruzione dell'aereo.
La salma del pilota tedesco viene portata all'Ospedale
della Provvidenza ove viene approntata la camera ardente.
Tutti gli uomini, giovani e anziani, si allontanano dal
Paese rifugiandosi nei vigneti o nelle boscaglie della collina; si teme
che l'uccisione di un tedesco possa provocare, infatti, la rappresaglia.
Il podestà e il coadiutore, accompagnati dal geom.
Frascotti, che è il segretario comunale, vanno immediatamente al comando
fascista di Fara per tentare di convincere il cap. Famà a non infierire
sulla popolazione di Ghemme, ma non ricevono udienza perché sono già le
21.
Il 4 marzo, in mattinata, giunge a Ghemme una
camionetta militare preceduta e seguita da macchine cariche di tedeschi;
dalla camionetta viene prelevata la cassa in cui gli stessi soldati
tedeschi depongono la salma del pilota; si forma il corteo funebre e, nel
tentativo di placare la rabbia dei tedeschi, tutta la popolazione vi
partecipa.
Prelevati e trasportati a Novara, Don Stoppa e il
podestà Crespi vengono sottoposti ad un lungo interrogatorio; rilasciati
il coadiutore ed il podestà vengono assicurati che non vi saranno
rappresaglie. La popolazione ritiene sia grazie alla partecipazione al
funerale.
Il 5 marzo, a Ghemme, non si nota alcun movimento fuori
dalla normalità; gli uomini ritornano a casa e al lavoro. Il 6 marzo,
alle ore 8, entrano in Ghemme due grossi automezzi carichi di tedeschi e
fascisti; in mezzo a loro vi sono dieci giovani, coi volti segnati da
profonde ferite, coi vestiti laceri ed imbrattati di sangue.
Si viene poi a sapere che i dieci giovani sono stati
catturati, in una imboscata, alla Bertinella Nuova, una cascina di
Bellinzago Novarese, l'8 febbraio del '45, da reparti del comando
tedesco di Turbigo che li aveva rinchiusi nella caserma del "54" e poi
tradotti alle carceri di Novara.
Prelevati dai tedeschi il Prevosto don Forni, il
podestà Guido Crespi, il Segretario Comunale geom. Frascotti, gli
automezzi si avviano al campo di atterraggio, non appena a terra, il
ventunenne garibaldino della "Volante Loss" Luigi Prandi tenta la fuga, ma
viene abbattuto da una raffica di mitra; don Forni viene colpito da una
pallottola alla mano e viene accompagnato all'Ospedale dal Segretario
Comunale. Don Stoppa prende immediatamente il posto del Prevosto ed in una
sua nota (pubblicata sull'Azione dell'8 marzo 1946) si legge:
«Nessuno dei condannati batte ciglio, ma i loro
occhi sereni si posano su di me sacerdote che essi sentono amico: io m'interpongo
presso il maggiore tedesco comandante del plotone per implorare la grazia,
ma dal tedesco più duro e più impassibile di un macigno ottengo, con una
fredda risposta negativa, il permesso di svolgere il mio sacerdotale
ministero, ma nel modo più celere..».
Interviene anche il podestà per tentare di salvare la
vita almeno del più giovane dei condannati a morte, Miglio Benami, che ha
solo quindici anni; ma il comandante tedesco ribatte: «Oh, 15 anni
con un fucile in mano può ammazzare anche lui».
Borgonovo, l'interprete, dà lettura della sentenza
di condanna a morte. Il plotone di esecuzione - 14 fascisti e 4 tedeschi
- è già schierato dinanzi ai condannati.
Il grido di «Viva l'Italia libera» si
confonde con il crepitio delle raffiche di mitra, ma proprio il
giovanissimo garibaldino, rimasto in piedi, riesce a gridare ancora, prima
di essere abbattuto da una seconda raffica, «Viva l'Italia
libera».
Chi sono i fucilati?
Carmelo Ardizzoia di Barengo; Frediano Bagnati,
diciottenne, operaio panettiere di Bellinzago; Adriano Barbero,
diciottenne, operaio, di Bellinzago; Ernesto Bovio di ventidue anni,
contadino, di Bellinzago; Benami Miglio, quindicenne, operaio di
Bellinzago; Boschi Ernestino, diciassettenne, garzone di macelleria, di
Novara; Piero Sassoni di trentadue anni, rilegatore, di Novara; Mario
Tosi, diciottenne, operaio, di Bellinzago e Luigi Prandi, ventunenne,
operaio meccanico, di Bellinzago, assassinato mentre tenta la fuga.
E' il comandante nazista che ordina: «Portare
via subito i corpi, portarli al cimitero con un carro. Provvedere le bare,
sotterrarli immediatamente, senza lacrime, senza rito, senza preghiere e
senza nessun accompagnamento.
Entro le 13; in caso di trasgressione,
impiccheremo dieci persone al balcone del Municipio».
Il commento di un milite nero:
«Che peccato non averne qui ancora altri cinquanta
da fucilare».
I DUE FRATELLI DI SAN MAURIZIO
Montenegro, 8 Marzo 1945 - Caduto: Angelo Peretti
Borgosesia, 16 Marzo 1945 - Caduto: Armando Peretti
I fratelli Angelo e Armando Peretti sono nipoti di un
eroe dell'impresa dei Mille.
Angelo Peretti, ventitreenne, geniere alpino della "Taurinense"
immediatamente dopo l'8 settembre del 43 fa la sua scelta: passa
nelle formazioni ribelli di Tito contro i nazisti e i loro alleati. E'
fra i più attivi combattenti, partecipa a numerose azioni di guerra, non
cede a pressioni fasciste, cade in Montenegro l'8 marzo 1945 per la
libertà dei popoli.
Armando Peretti, trentenne, prende la via della
montagna nel giugno del '44 e si arruola fra i partigiani della VI
"Nello". Ben presto Armando si fa notare sia per la carica di entusiasmo
sia per il coraggio di cui dà dimostrazione nelle azioni. Con il
comandante "Paolo", nella compagnia guastatori, è sempre fra i primi
a mettersi a disposizione.
Il 16 marzo i garibaldini danno l'assalto alla
caserma di Borgosesia; Armando Peretti, con la squadra guastatori,
imbottisce le mura della caserma con cariche di esplosivo. I presidianti
si accorgono di quanto sta accadendo e danno inizio alla sparatoria.
Armando, per tentare di aprire la strada ai compagni,
si butta allo scoperto e piazza alcuni tubi di dinamite nel recinto della
casermetta; sta per portare a termine l'operazione quando viene centrato
da alcune raffiche; muore qualche ora dopo.
Entrambi i fratelli sono stati insigniti di Medaglia di
Bronzo al Valor Militare.
GIORNO DI FUOCO - Oleggio Castello, 13 marzo 1945
Caduto: Stephen Bondavenko
«Nel pomeriggio del 13 marzo» ricorda
"Alberto" (dal diario di Carlo Alberto Morelli di Popolo), «venivamo
avvertiti che un autocarro, con a bordo una quindicina di fascisti, era
transitato sulla strada sotto di noi, diretto a Borgomanero. Marco
Scolari ("Marco") si apposta, con una squadra, al culmine della salita
detta la "Testa"; io, con un'altra, un po più giù, in un fossato
al di là dello stradone e Italo Canotti ("Tito"), con una terza
squadra, dietro il muro di cinta di una villa in Oleggio Castello».
Una spiata o un colpo di fortuna per i fascisti? Il
fatto è che la squadra di "Alberto" rischia di essere accerchiata e,
per evitarlo, attraversa lo stradone e si allontana.
Continua "Alberto": «Mentre salgo al campo
sento sparare in direzione Oleggio Castello
I militi sono scesi dal
camion, che ha continuato la marcia per trarci in inganno, ed hanno
effettuato una manovra a tenaglia attorno alle nostre postazioni.
"Marco" se li trova addosso all'improvviso, ma riesce a sganciarsi dopo
un breve scontro in cui perde la vita il georgiano Bondavenko, colpito a
morte».
A "Tito" le cose vanno meglio e ricorda (la
testimonianza è stata rilasciata da "Tito" a C. A. Morelli): «Sistemo
alcuni uomini sotto il portone della villa del marchese Dal Pozzo, di
fronte alla strada, altri li nascondo al bivio di Mercurago e i rimanenti
fra le piante, nella villa Negri
».
Dal Bollettino di guerra n. 152 si apprende qual è l'esito
dello scontro:
«La sorpresa ed il preciso fuoco delle nostre armi
annientano il nemico che ha 13 morti, 1 prigioniero e parecchi feriti
. Viene
provveduto al recupero di tutte le armi: una mitragliatrice Fiat, una
mitragliatrice Breda con due cassette di munizioni, un mitra Beretta, 10
moschetti, 6 pistole e alcune bombe a mano
..».
Mentre i garibaldini stanno rientrando al campo,
arrivano i rinforzi per i fascisti, ma è ormai troppo tardi. A "Tito"
viene, in seguito, affidato il comando del battaglione "Emilio".
Testimonianze e Bollettino sono pubblicati su Resistenza
Unita, novembre 1978, sotto il titolo «Il georgiano caduto a
Oleggio Castello nel marzo 1945» a firma di C.A.Morelli.
CACCIATORI DI TAGLIE - Montrigiasco, 16 marzo 1945
Caduti: Gabriele Biana, Rolando Bariselli, Martino Barni, Mario Albino Bonicalza, Gianni Gioria, Pierino Manni, Carlo Mozzi, Giuseppe Sacchi, Aldo Sala
I cacciatori di taglie sono sempre esistiti e non vi è
alcun dubbio sul fatto che esistano anche al servizio dei nazifascismi;
sono coloro che per trenta denari o per una manciata di sale vendono la
vita dei loro fratelli al nemico.
Ciò che accade il 16 marzo 1945 a una pattuglia di
garibaldini della "Servadei" è proprio il frutto di una spiata.
La pattuglia, composta da nove uomini, è comandata da
Gianni Gioria che, essendo di Dagnente, conosce bene la collina e in
particolare le strade e i sentieri del Vergante. E' reduce da numerose
azioni sui due versanti del Mottarone che hanno fruttato un buon bottino
di armi e munizioni. Gli altri otto giovani sono: Biana di Crusinallo di
Omega, Rolando Bariselli pure di Omega, Barni di Inveruno, Bonicalza di
Cassano Magnago, Manni di Ghevio, Mozzi di Pavia, Sacchi di Arona e Sala
di Milano.
«Nove ragazzi contenti.. in una mattina splendida
giù per un prato in discesa.. tra castagno e castagno, radure tempestate
di primule, violette gentili e odorose
l'aria è tutto un profumo,
fresca come se fosse piovuto da poco».
Scendono per raggiungere la strada che da Montrigiasco
(frazione di Arona) porta a Ghevio ( frazione di Meina), «con la
divisa marrone alla sciatora, mostrine rosse rosse e , sopra il rosso, la
stella alpina grigio-argento; ciascuno, attorno alla vita, la cintura con
i caricatori di mitra
» e, sulle spalle, più di un'arma,
frutto delle azioni riuscite.
Tenere dietro a Gioria, un vero montanaro dal passo
sicuro e continuo, non è per tutti facile e, in particolare, per i
cittadini che hanno conosciuto la montagna quando vi sono saliti a fare il
partigiano.
Ma «tra una stoccata e l'altra, i ragazzoni
si tengono su di morale», si fanno delle belle risate e non
sentono la stanchezza.
Vanno incontro alla morte. In fondo al prato, oltre il
recinto, i nazisti sono in agguato; uno sporco spione ha consegnato i nove
ragazzi nelle braccia della morte.
Vi è ora un gran silenzio nella valle.
IL COMMISSARIO DELLA X "ROCCO" - Baraggia di Suno, 16 marzo 1945
Caduto: Peppino Preti
Peppino Preti era un partigiano garibaldino, studente
del V° anno di medicina. Era entrato in formazioni partigiane e svolgeva,
in un primo tempo, mansioni di aiuto medico. Per il suo coraggio, per la
pronta intelligenza e le sue doti di organizzatore veniva ben presto
nominato Commissario della X "Rocco".
In tante azioni aveva guidato i suoi uomini alla
vittoria. Rientrando, il 16 marzo 1945, da una missione veniva sorpreso da
una pattuglia della "Folgore", catturato e immediatamente trucidato a
colpi di pugnale.
TUTE BIANCHE - Corconio di Orta, 22 marzo 1945
Caduto: Ottorino Rondoni
Rondoni, detto "Tom Mix", il ventitreenne
montanaro di Crodo, è un garibaldino del battaglione "Bariselli", il
battaglione della X Brigata "Rocco" che opera nel Medio Novarese.
"Tom Mix", a corto di munizioni,inizia una
serie di azioni coraggiose per procurarsi armi. L'operazione consiste
nel tentare di ripulire' il magazzino dell'Ospedale militare
situato nell'Hotel Lido Palace di Baveno. Ogni informazione al riguardo
viene data da un'abile staffetta, Riccardo Salina.
I garibaldini, armati di mitra, non hanno difficoltà a
raggiungere il luogo d'azione; irrompono nella mensa sottufficiali ed
intimano «mani in alto» ad una quindicina di uomini qui
riuniti; non vi sono reazioni da parte del nemico.
Mentre tre garibaldini tengono sotto tiro i militari
nemici, gli altri prelevano dal magazzino «coperte scarponi e
lenzuola; con le lenzuola si possono confezionare tute bianche, utilissime
per mimetizzarsi nelle zone innevate».
I sottufficiali fascisti trasportano il materiale fino
a Levo dove è in attesa un carro trainato da due cavalli; ringraziando
per l'aiuto ricevuto, i garibaldini rispediscono i fascisti al loro
comando. La pattuglia garibaldina, cantando e ridendo, riprende il cammino
per il campo base di Armeno. Ma l'anno nuovo non comincia bene per
"Tom Mix"; isolato dai suoi compagni, viene colto di sorpresa
da una pattuglia nemica, catturato e trasferito nei sotterranei dell'albergo
Bellavista di Baveno, adibiti a carcere dei nazisti.
Il 21 marzo una pattuglia nazista si scontra, nei
pressi di Corconio, frazione di Orta San Giulio, con una pattuglia
partigiana e perde, in combattimento, un uomo.
La risposta non si fa attendere. Il 22 marzo dai
sotterranei del Bellavista viene prelevato il garibaldino "Tom
Mix"; trasportato sul luogo in cui è avvenuto il giorno precedente
lo scontro, "Tom Mix" viene fucilato.
ECCIDIO AL VECCHIO IMBARCADERO - Solcio di Lesa, 24 marzo 1945
Caduti: Adolfo Beltrami, Cipriano Beltrami, Giovanni Beltrami, Gian Mario Comina, Giorgio Fagnoni, Severino Gobbi, Tersilio Lilla, Paolo Torlone, Pietro Travaini, Pierino Tondini
All'albergo Bellavista di Baveno è alloggiato il
comando nazista e nei suoi sotterranei sono rinchiusi partigiani ed
ostaggi civili catturati nel corso dei rastrellamenti nel Cusio, in Ossola,
nel Verbano e nel Vergante. Il Comandante è il cap. SS Stamm ed ecco
perché l'Albergo viene in questi giorni chiamato Pensione Stamm.
Gli "ospiti" della pensione Stamm sono i partigiani
e i civili in attesa di esecuzione.
Marino Ribalzi (ospite con il figlio nella pensione
Stamm) ricorda su la "squilla Alpina" del 10 febbraio 1946 che
un giorno, il 24 marzo del 1945, «spiando dalla finestra, vede
entrare nel cortile dell'Albergo un camion con a bordo un tedesco con il
cranio sfracellato», si tratta di un soldato caduto nel corso
di uno scontro, fra partigiani e tedeschi, avvenuto a Solcio di Lesa
qualche ore prima.
Gli ospiti della pensione Stamm sono certi che la
giornata si chiuderà male: non può mancare la criminale reazione
nazista.
Infatti, dopo circa mezz'ora dall'arrivo del
cadavere del soldato nazista, due fascisti annunciano ai prigionieri: «Banditi,
domani sarete tutti fucilati. I vostri compagni delinquenti hanno ucciso
un tedesco».
I nazisti non attendono il giorno dopo; nel pomeriggio
dello stesso 24 marzo, con le armi spianate, costringono i prigionieri ad
allinearsi nel corridoio principale dell'Albergo, danno immediatamente
inizio all'appello e trascinano in disparte dieci partigiani: tre
fratelli Adolfo, Cipriano e Giovanni Beltrami, rispettivamente di 22, 31 e
24 anni, Gian Mario Comina di 23 anni, Giorgio Fagnoni di 18 anni,
Tersilio Lilla di 20 anni e Pietro Tondina di 18 anni, tutti militanti
nella formazione autonoma "Valtoce" e Severino Gobbi di 18 anni, Paolo
Torlone di 21 anni e Pietro Travaini di 17 anni della formazione "Redi".
Condannati a morte, i dieci giovani, caricati su un
camion, vengono trasportati a Solcio di Lesa e scaricati in un angolo del
piazzale del vecchio imbarcadero, di fronte a villa Cavallini.
Le SS bloccano le strade interne della piccola frazione
e creano due posti di blocco ad un chilometro a sud e a nord della statale
32.
L'esecuzione: un ordine secco
raffiche di mitra.
La vendetta è compiuta: dieci italiani per un tedesco caduto nel corso di
un combattimento. Un mucchio di cadaveri e su quel mucchio, prima di
allontanarsi, gli unni di Hitler lanciano bombe a mano.
La mamma dei fratelli Beltrami, non appena a conoscenza
dell'assassinio dei suoi tre figli, va sul luogo dell'eccidio, carica
i cadaveri di Adolfo, Cipriano e Giovanni su un carrettino che si trascina
fino ad Ameno, nel cui cimitero i tre martiri vengono sepolti.
NELL'OMBRA DI UNA PIAZZETTA - Borgoticino, 24 marzo 1945
Caduti: Romano Della Vecchia, Giuseppe Rinolfi
Nella trattoria del "Monferrato", in borgata San
Martino di Novara, nasce uno dei primi centri della resistenza al fascismo
immediatamente dopo l'8 settembre. La trattoria è condotta dalla
famiglia Della Vecchia, già nota per la sua avversione al fascismo, ed è
per tale motivo che nei locali si trovano ben presto riuniti vecchi
antifascisti e giovani che non vogliono servire né fascisti né i loro
alleati nazisti. Tambussi, i Bazzani di Ponticello, "Pietro" Angelo
Fornaia, Secondo Ubezio, Mario Avendo, Mario Paglino, Mario Colombo, L.
Nicola, gli stessi figli giovanissimi dell'oste, Romano e Celsina e Aldo
Da Milano (un carissimo amico dell'autore del libro, Cap. Massara, con
cui viaggiava da Novara ad Omegna per insegnare nelle scuole industriali e
commerciali della cittadina del Cusio), sono fra i primi organizzatori del
GAP che negli ultimi giorni di lotta assume la denominazione di brigata
"Della Vecchia".
Il GAP opera in città e nel circondario, a Romentino,
a Trecate, a Galliate, a Cameri e in tutta la Bassa Novarese, ed ha
ovunque delle squadre formate dai giovani del luogo, renitenti alla leva
fascista.
Il giovane Romano lavora al reparto calco dell'Istituto
Geografico De Agostini e impegna le sue ore libere nel rischioso compito
di staffetta prima del GAP e poi del Fronte della Gioventù che ha in Da
Milano e in Osvaldo Baggiani due dei più vivaci animatori. Romano
continua nella duplice attività di lavoratore e di staffetta fino agli
ultimi giorni di febbraio '45, poi, venendo a sapere che i fascisti lo
ricercano, nei primi giorni di marzo, in compagnia di Celsina, raggiunge
Caltignaga, si reca a Cavaglio d'Agogna e, infine, ad Agrate Conturbia
dove si unisce ai garibaldini di un reparto della X "Rocco" che opera
nella zona. "Saetta" è il nome di battaglia che assume Romano Della
Vecchia.
"Saetta" stringe subito amicizia con "Athos", un partigiano
che non è alle prime armi, «con baffi, pizzetto e una lunga
capigliatura
un cinturone ed una bandoliera con vari oggetti appesi: un
pugnale, una borraccia, una bussola, un binocolo, un borsetto di cuoio, un
pezzo di ferro da cavallo e altre cose meno identificabili
e la pipa in
bocca. Athos ha pure uno sten che, appena può, pulisce a dovere mettendo
olio nella molla che muove la massa battente e nel meccanismo che la
libera quando viene premuto il grilletto..». "Athos" è sempre
informato di quanto avviene nelle altre zone, è generoso e pronto ad
unirsi alle pattuglie che partono per un'azione, è anche «un
inquieto, un girovago notturno.. si reca spesso a Borgoticino.. molti lo
hanno notato».
La sera del 24 marzo, "Athos" chiede ai due amici, "Saetta"
e "Folgore", di accompagnarlo e due amici non si fanno pregare anche perché
sono curiosi di conoscere il motivo di quelle scappate notturne.
Ma il girovagare notturno di "Athos" non è sfuggito
anche qualche spia.
Il cielo è coperto, la sera è assai buia e proprio
«quella sera, nell'ombra di una piazzetta (di Borgoticino) li
aspetta un'autoblindo. I tre la vedono troppo tardi, solo un momento
prima di essere abbagliati dalle fiamme della mitragliatrice
».
"Folgore" riesce, con abilità e tanta fortuna, a sfuggire sia alla morte
che alla cattura; "Athos" e "Saetta" cadono, colpiti a morte.
Il triste annuncio della morte dei due partigiani viene
riferito al comandante Luciano Raimondi ("Nicola"), proprio mentre lo
stesso Comandante ricorda ai più giovani compagni che «le spie
sono il nostro maggiore pericolo perché ti colpiscono alla schiena».
La morte di "Athos" e di "Saetta" i garibaldini della X
"Rocco" se «la portano intorno come una cosa amara».
IL COCCODRILLO NERO - Otra di Forno, 25 marzo 1945
Caduti: Giustina Peretti Piana, Calogero Talleri
Una spietata caccia all'uomo e le due valli (Strona e
Anzasca) sono ripetutamente percorse dai nazifasciste. Ben tre sono i
rastrellamenti che vengono effettuati nel mese di marzo del '45 e le
compagnie del battaglione "Torino" si spezzano in reparti snelli per
sfuggire più agevolmente alle battute di caccia del nemico.
Le popolazioni delle valli sono, come sempre, con i
partigiani e rifiutano di prestare ai nazifascisti qualsiasi aiuto, e
soprattutto, informazioni sui movimenti dei reparti partigiani.
L'ultimo rastrellamento del mese di marzo ha inizio
il giorno 24 alle ore 20.30. Sia l'ora di partenza che le diverse fasi
della scorribanda così come i nomi dei più attivi camerati che vi
partecipano, ci vengono forniti dal rapporto steso dal maresciallo Natale
Raffaeli, comandante del Presidio di Pieve Vergonte, e controfirmato dal
capitano Raffaele Raffaeli comandante della XXIX brigata "E. Muti Ravenna".
I brigatisti della "Muti" lasciano Rumianca e Megolo
(frazioni del comune di Pieve Vergonte), ed iniziano ad inerpicarsi sui
sentieri «itinerari dei partigiani, occhi aperti ed orecchie
tese» fino a Castello, poi, dopo una sosta, riprendono il cammino
fino a Ballo e sempre più su per il monte ripidissimo, giungendo così ad
Alpe Grotta ( mt 1634) alle ore 4 del 25 marzo. I baldi camerati del cap.
Raffaeli affrontano ora «la folta boscaglia, il terreno
ripido» e il cammino si fa ancora più difficile anche per la
mancanza della luna per cui si impone una lunga sosta; durante la sosta
son costretti al rientro «due squadristi della compagnia perché
sfiniti» e, con essi, rientrano due guide.
Nei pressi dell'Alpe Campo, i camerati vengono
salutati «da raffiche di mitraglia e moschetti»; sono
garibaldini del battaglione "Brunetto", una piccola unità che opera a
cavallo delle Valli Strona e Anzasca che vogliono dare qualche ulteriore
preoccupazione ai brigatisti della "Muti". Vorrebbe essere, quella dei
garibaldini, una rapida azione di guerriglia, ma, nel corso della
sparatoria, rimane ferito il quindicenne vogognese Luigi Fovanna e i
compagni, per sottrarlo alla cattura, sono costretti a trasportarlo a
braccia lungo la discesa che, nel versante della Valle Strona, porta alla
piccola borgata Forno di Valstrona. Le tracce di sangue lasciate dal
partigiano ferito guidano i brigatisti alla borgata (mt. 892) della
Valstrona.
Si legge nel rapporto del maresciallo Raffaeli: «Viene
circondato il paese e le frazioni, apprendono che il ferito è stato
curato da una famiglia, si chiede alla popolazione la direzione presa dai
partigiani, questi negano qualsiasi aiuto, la casa viene incendiata.
Fermato un individuo sospetto che cerca di fuggire, è raggiunto dai colpi
dei nostri tiratori e deceduto immediatamente». L'episodio
che viene citato nel rapporto, se si riferisce all'uccisione del
Calleri, è assolutamente falso.
Una donna nel paese, incuriosita dal gran vociare, si
affaccia alla finestra della propria abitazione; i brigatisti ne
approfittano per chiederle di fornire loro notizie sul partigiano ferito;
avendo la donna risposto che non sa nulla, i ribaldi danno fuoco alla
casa. Uno sgherro della "Ravenna" va verso la chiesa accompagnato
dalla maestra costretta a seguirlo, e scorto il Prevosto gli si avventava
contro con il mitra puntato al petto chiedendogli: «Dov'è il
partigiano ferito?». «Non lo so» rispondeva Don Zola
parroco di Forno. «Dica la verità o le sparo». ribatteva
lo sgherro. «Penso che abbia preso la via dei monti».
«Allora andiamo" ingiungeva il brigatista «E ricordi
la fine che fece il prete di Castiglione. Lei farà la stessa fine se non
ci dice ove si trova il partigiano ferito». Il Prevosto veniva
trascinato nell'Albergo dove i padroni, al fine di allontanare il
pericolo da Forno, affermavano «Un partigiano è passato di qui e
ha proseguito verso la frazione di Otra».
Ormai il paese era invaso dalla canaglia della "Ravenna".
Dall'Ufficio Postale erano stati prelevati i due fratelli Zamponi e
sebbene dichiarassero di non saperne nulla venivano trascinati, con il
Prevosto, verso Otra.
Strappati dalle case una decina di valligiani, i
brigatisti neri li trascinano nella casa della vedova di Rocco Tonoli; tra
coloro che erano stipati nella stanza della vedova, vi era pure la
trentenne Giustina Peretti in Piana, madre di tre bambini in tenera età e
chiaramente ancora in stato di gravidanza; Giustina si rifugiò in un
angolo e si sedette accanto alla stufa. Alla porta d'entrata sono
appoggiati due cacciatori del Cap. Raffaeli. Ad un tratto il milite più
anziano rivolgendosi all'altro e indicando la Peretti, diceva
«Guarda quella donna come è gonfia. Passami il mitra». Una
raffica e Giustina Peretti si afflosciava trascinando nella morte anche il
bimbo che aveva ancora in seno. Considerando l'accaduto un fatto accidentale,
nel suo rapporto il "coccodrillo nero" scrive: «Questo ha
molto rattristato tutti noi» ed è tanto profondo il dolore che i
camerati si mettono subito a tavola per consumare un «pranzo
frugale». Dopodiché i militi danno fuoco alle case della
sottofrazione e, quindi, alle baite e ai boschi. Non ancora sazie, le
canaglie fasciste, arrestavano un giovane meridionale che lavorava nella
miniera dell'AMNI. Condotto in Albergo a Forno, veniva bastonato,
frustato, torturato e seviziato, fattagli stendere una gamba sopra ad un
tavolo con il calcio del mitra gliela spappolavano. Trasportato quindi ad
un centinaio di metri dall'abitato veniva trucidato con una scarica di
mitra.
Compiuta la bestiale impresa, le canaglie della "Ravenna"'
lasciavano Forno, nel tardo pomeriggio, cantando a squarciagola. Il
partigiano ferito, con una decina di valligiani, era stato ricoverato nell'ultima
casa di Otra a cui era stato dato fuoco dai militi. La partenza della
sbirraglia permetteva alla popolazione di intervenire prontamente e
liberare i prigionieri già semiasffissiati dal fumo dell'incendio.
Nel corso della Lotta di Liberazione il paese di Forno
doveva subire ben 13 rastrellamenti nazifascisti.
FUCILATI ALL'ALPE CREGNO - Quarna, 25 Marzo 1945
Caduti: Livio Rossetti, Stefano Bislacchi, Pietro Savona
Nel corso di un grande rastrellamento, l'ultimo di
una terribile serie, venivano colti in una imboscata e catturati tre
partigiani. Non vigeva la legge militare ma la legge del delitto. I "barbari"
predisposero il plotone di esecuzione e li fucilarono.
SACCHEGGIO, DISTRUZIONE E MORTE - Cà Bianca di Suna 25, marzo 1945
Caduti: Arturo Baratti, Giuseppe Neri, Nicola Trovato
Il 24 marzo, sulla statale n. 34 nei pressi della Cà
Bianca di Suna, frazione del comune di Verbania, due motociclisti, un
milite e un ufficiale della brigata nera "Ravenna", incappano in una
pattuglia partigiana della 85^ brigata "Valgrande Martire" e hanno la
peggio; il milite rimane ucciso, mentre l'ufficiale, pur essendo ferito,
riesce a far perdere le tracce, a risalire la stradina del lago e a
raggiungere villa Troubetzkoj in cui viene ospitato; è la signorina
Spadaccini della Trattoria S. Carlo che gli dà le prime cure. Ma l'ufficiale
della "Ravenna" vuole essere ricoverato all'Ospedale di Verbania e
quindi, dietro sua insistenza, viene fermata una macchina proveniente da
Fondotoce; il ferito viene trasportato a Verbania.
La "riconoscenza"' per il trattamento umano
riservato all'ufficiale fascista non tarda a manifestarsi; un
consistente reparto della "Ravenna" cala nella zona della Ca'
Bianca, viene dato alle fiamme il bosco, le case vengono saccheggiate e in
parte incendiate; nella villa Traubetzkoj vengono distrutte opere
pregevoli, nello scantinato della Trattoria S. Carlo vengono messe fuori
uso tutte le reti da pesca.
I brigatisti si recano poi alla Colonia Motta e alla
Orticola di Villa Esperia, prelevano alcuni operai e, dopo averli caricati
sugli autocarri, rientrano al comando di Intra. Il peggio accade l'indomani
mattina. Due camionette raggiungono la Cà Bianca di Suna; una camionetta,
proveniente da Mergozzo, scarica, con i militi, due operai della
Montecatini, Giuseppe Neri di 27 anni e Nicola Trovato di 26, arrestati la
sera prima all'uscita dello stabilimento. I tre civili, trascinati sul
luogo ove si è verificato lo scontro fra la pattuglia partigiana e i
brigatisti neri, vengono bastonati e frustati e, infine, assassinati.
L'ALBA TRAGICA DI SAN MARCELLO - Invorio, 28 marzo 1945
Caduti: Ugo Ballerini, Mario Bertone, Nando Ebro, Carlo Garzonio, Giacomo Godio, Filippo Leggri, Amleto Livi, Edmondo Negri, Carlo Pedrini, Angelo Piantanida, Pietro Quirini
La marcia di trasferimento è lunga e dura; vento
gelido e pioggia martellante sono cattivi, anzi pessimi, compagni di
viaggio, un viaggio che sembra non avere mai fine. I partigiani del
battaglione "Bariselli" hanno ricevuto l'ordine dal comando della
divisione di trasferirsi da Boleto ad Armeno, dall'una all'altra
sponda del lago d'Orta. Fradici, stanchi ed affamati, i garibaldini del
"Bariselli" raggiunto Armeno, possono, finalmente, anche scrollarsi di
dosso la fame, ma non tarda ad arrivare il nuovo ordine di andare nel
Vergante, nelle vicinanze di Invorio.
La marcia riprende e, proprio nei pressi di Invorio, vi
è l'incontro con un distaccamento del III battaglione della X "Rocco"
guidata da Edmondo Negri, detto il "Generale", e con elementi della
divisione alpina d'assalto "F.M. Beltrami" con Bortolo Consoli ("Burtul")
e della "Volante Dom". E' una fortuna per i garibaldini del "Bariselli"
incontrare tanti compagni che si fanno in quattro per aiutarli; possono,
finalmente, cambiare la biancheria zuppa e consumare un rancio caldo
dinanzi ad un grande camino il cui fuoco asciuga anche le ossa.
E' in questa occasione che Mario Preda ("Topolino"),
il quindicenne garibaldino di Verano Brianza che milita nel "Bariselli",
incontra Amleto Livi, detto "Matteotti", sedicenne garibaldino agli
ordini del "Generale" (figlio di un operaio antifascista, se pur
giovanissimo aveva già partecipato all'insurrezione di Montefiorino,
era stato catturato ed era fuggito mentre stava per essere caricato su una
tradotta diretta in Germania). "Topolino" è fradicio ed ha «ai
piedi un paio di scarpe autarchiche e sgualcite» e il nuovo amico
"Matteotti" gli passa un paio di scarponi e un paio di calzettoni di lana e
non vi è dubbio sul fatto che, in quel momento, il dono del giovane amico
sia un regalo da considerarsi prezioso. L'amicizia fra "Topolino" e
"Matteotti" è presto fatto anche se, purtroppo, l'ordine di far da guida
ad un gruppetto di nuovi arrivati che devono trasferirsi in un cascinale
più a monte stacca "Matteotti" dal nuovo compagno.
"Matteotti", mettendosi «l'elmetto di ferro in
capo» promette a "Topolino" di portargli, al rientro, un fucile.
Continua a piovere fino a tarda notte tra il 27 e il 28 marzo. Il tempo
per dormire non è mai sufficiente, soprattutto per i giovanissimi e
particolarmente in questa occasione è troppo breve; alle prime luci dell'alba,
i garibaldini, rifugiatisi nelle cascine Cedola e Castellaccio, vengono
svegliati da raffiche di mitra e di mitragliatori; i colpi provengono da
ogni lato e non è difficile convincersi che la località è accerchiata.
Occorreva aprire, ad ogni costo, una via d'uscita, un
passaggio, spezzando il cerchio, e superare il prato esponendosi al
bersaglio del nemico. Il primo sfortunato tentativo venne effettuato da
Mario Bertone ("Vento"), da Carlo Garzonio ("Nuvola"), da Giacomo
Godio ("Tom"), ma i tre garibaldini furono falciati dalle raffiche
della mitraglia. Anche "Matteotti" tentò di superare il prato, coperto dai
compagni, ma venne ferito.
Filippo Leggeri ("Memo"), commissario politico
della "Volante Dom", si batté da leone; «solo contro
sette,spara fino all'ultima pallottola». Ferito ad una gamba,
riusciva a percorrere un centinaio di metri, continuando a sparare contro
il nemico che lo circondava. Raggiunto veniva spogliato, seviziato,
sfigurato e finito a colpi di pugnale e di baionetta. Poi caddero, nel
vano tentativo di superare quel prato maledetto, Pietro Quirini ("Quiri")
e Ugo Ballerini, anch'essi della "Volante Dom" e venne ferito "Burtul",
uno dei grandi "veci" della Damasca.
Caddero ancora Nando Ebro, Angelo Piantanida ("Brighin")
ed Edmondo Negri, il "Generale". Il giovane "Matteotti", ferito, venne
catturato e trucidato a colpi di pugnale. I fascisti, non ancora
soddisfatti, raggiunsero Invorio, saccheggiarono alcune abitazioni, dando
alle fiamme altre case ed infine fucilarono un civile, Carlo Pedrini.
I fascisti fotografarono i volti sfigurati dei
trucidati e fecero pervenire alle famiglie dei caduti la fotografia del
congiunto.
LA BATTAGLIA DEL CIMITERO - Grignasco, 30 marzo 1945
Caduti: Giuliano Accorsero, Quintino Aleppo, Egidio Borelli, Dino Gray, Lino Sagliaschi
E' annunciato imminente l'arrivo dei nazifascisti a
Grignasco; non è una novità, ma, questa volta, essendo preavvisati, i
partigiani vogliono preparare loro «un ricevimento coi
fiocchi». Il compito dei preparativi se lo assumono Mario Vinzio
("Pesgu") e Francesco Sacchi, rispettivamente comandante e vice
comandante della LXXXII "Osella", una delle più brillanti brigate
garibaldine. Collaborano attivamente i garibaldini della "Curiel" al
comando di F. Penna.
I guastatori minano un tratto di strada provinciale,
all'altezza del cimitero; reparti partigiani si appostano sulla Varina,
una collinetta che sovrasta la cittadina; il blocco stradale partigiano
nella stessa mattina del 30 marzo «fa pagare un duro pedaggio ad
un camion carico di tedeschi che tentano di salire verso Borgosesia»,
come ricorda il Sacchi. Nelle prime ore pomeridiane, qualche minuto prima
delle 14, sopraggiungono due autocarri blindati, carichi di tedeschi;
brillano le mine poste all'altezza del cimitero e il primo autocarro
salta in aria; i partigiani, dalla collina, concentrano il fuoco sul
secondo mezzo blindato, ma la reazione degli occupanti di tale autocarro
è pronta, immediata, nell'uso delle mitragliatrici e del cannoncino che
ha a bordo.
Scesi a terra, i tedeschi «si appostano dietro
il terrapieno della ferrovia e il muro del cimitero» ed alcuni di
loro, raggiunta la chiesetta del cimitero, piazzano sul campanile una
mitragliatrice. "Pesgu" da inizio ad una manovra di accerchiamento
che, con il tempo, costringe i tedeschi a risalire sull'autocarro
blindato e ritirarsi verso Romagnano Sesia. Alla Ghibellina, una località
tra Grignasco e Prato Sesia, i tedeschi vengono sorpresi da una squadra di
garibaldini ivi appostata e perdono ancora due uomini.
E' probabile che proprio la perdita di altri due
uomini, dopo lo smacco subito dinanzi al cimitero di Grignasco, convinca i
tedeschi a fare dietrofront e a riportarsi verso il punto in cui hanno
perso un automezzo e i loro camerati. I partigiani che, dinanzi al
cimitero, stanno provvedendo al recupero di armi e munizioni, vengono
sorpresi dal ritorno inaspettato dei tedeschi e la sorpresa costa la vita
a tre partigiani e due civili. Prima di potersi mettere al riparo, vengono
abbattuti Quintino Aleppo ("Quintino"), Dino Gray ("Graiet") e il
comandante di plotone Lino Sagliaschi che «ferito agli arti
inferiori, nell'impossibilità di sfuggire alla cattura, ad un compagno
che vuole portarlo in salvo porge il mitra, reso inservibile per mancanza
di munizioni, rifiutando di farsi salvare per non mettere a repentaglio la
vita di un altro garibaldino». Vengono uccisi anche due civili,
Egidio Borelli e Giuliano Accorsero, accorsi per dare una mano ai
partigiani a raccogliere il materiale abbandonato dai tedeschi.
Il combattimento riprende e questa volta i tedeschi
sono costretti ad abbandonare definitivamente il campo; lasciano sul
terreno 18 morti per lo scoppio della mina e 12 nel corso del
combattimento.
LA TRAGEDIA DEL VENERDI' SANTO - Casalino, 30 marzo 1945
Caduti: Severino Comelli, Francesco De Stefano, Domenico Gatti, Francesco Lazzaroni, Giuseppe Manenti, Giovanni Poletti, Ezio Roncaglione
«Casalino, borgo solitario che sta nel cuore
della Bassa risicola», non dimenticherà mai il Venerdì Santo
del 1945. E' il 30 marzo; reparti della "E. Muti" (oltre
centocinquanta militi) vengono scaricati da una colonna di automezzi all'ingresso
di Casalino; vi sono, con i militi, una decina di SS guidati dall'interprete
Borgonovo, un uomo che si è procurato una ben cattiva fama. I
nazifascisti, prendendo a pretesto la ricerca di armi nascoste dai
partigiani, perquisiscono tutte le case del paese e fanno man bassa di
tutto ciò che può essere loro utile e, prima di ogni altra cosa, di
denaro e preziosi. Vi è pure qualcuno che, con promesse e minacce, tenta
di strappare alle donne e agli anziani confidenze su eventuali rifugi di
partigiani, ma ogni tentativo in questo senso fallisce miseramente.
In via San Pietro, i nazifascisti si imbattono in
Giuseppina e Severino Comelli. I due fratelli, non avendo via di scampo,
decidono di proseguire tranquillamente; purtroppo in una sacca di Severino
viene scoperta una mazzetta di volantini che inneggiano alla prossima
vittoria finale delle forze di liberazione.
Severino Comelli, percosso selvaggiamente, confessa di
avere ricevuto i volantini dal fratello che si trova in località Quarti,
nei pressi di Cameriano (frazione di Casalino, come Ponzana e Orfengo).
Severino sa che a Quarti vi sono degli operai addetti alla pulitura delle
fontane ma è certamente all'oscuro del fatto che una pattuglia
della V brigata "Osella" ha trovato rifugio nei cascinali dei dintorni,
con il compito di racimolare viveri per il proprio reparto che si trova
fra i vigneti di Briona.
I nazifascisti, comunque, vanno alla ricerca del
fratello di Severino nella località Quarti, pianeggiante e vasta come una
landa, incrociata da fossi e rotta da fontane, rigata da teorie di alberi
ineguali, sfrondati e mesti nella desolazione di un luttuoso presagio; i
nazifascisti la circondano e la setacciano.
Gli otto garibaldini della Brigata "Osella"', presi
alla sprovvista e accortisi troppo tardi dell'arrivo dei nazifascisti,
decidono di resistere e di tentare di aprirsi un varco; solo due
garibaldini riescono a passare fra le maglie della rete tesa tutt'attorno
dal nemico; per gli altri sei garibaldini la fine è ormai segnata, ma
continuano a sparare finché ad uno ad uno cadono falciati dalle raffiche
dei mitragliatori e dei mitra.
Cade Ezio Roncaglione, studente diciottenne di Orfengo,
cade il ventunenne Giovanni Poletti di Cressa e, vicino a lui, cade il
diciottenne Francesco Lazzaroni, originario di Dello (Brescia); a qualche
centinaio di metri più in la cadono il ventiduenne Domenico Gatta di
Bovegno (Brescia) e residente a Vinzaglio, il diciottenne Francesco De
Stefano, perito industriale di Reggio Calabria e residente a Casalino;
ancor più lontano viene abbattuto il venticinquenne Giuseppe Manenti di
Comenzano (Brescia) ma residente a Casalino. Infine anche il
diciassettenne Severino Comelli, trascinato fino a Quarti, viene
assassinato dai militi della "Muti".
Scriveva Soreghina su La Stella Alpina del 15
luglio 1945: «Non basta al loro sadismo ciò che è stato fatto.
Verso le 13 raggiungono i cadaveri, li spogliano di quanto hanno indosso,
quindi li sfregiano con i pugnali
. tirano di pugnalate all'occhio
destro e al collo di Poletti, a De Stefano squarciano il ventre e vi
introducono una pipa
; il viso di Roncaglione e degli altri viene
deturpato
».
Un'orgia di sangue. La guida, spia e interprete,
Borgonovo ordina al segretario comunale dr. Farnetti: «Adesso
provvedete al seppellimento dei morti ma senza fare alcuna cerimonia. Ne
va della vostra vita e di quella del prete, se fate diversamente
. Se li
lasciate marcire all'aperto, per noi fa lo stesso». Un giovanissimo
milite urla, mostrando il pugnale insanguinato: «Quest'anno ho fatto una
buona Pasqua».
UN PARROCO RACCONTA - Bannio Anzino, 30 marzo 1945
Caduti: Achille Titoli, Oreste Volpone
Dalla sede del presidio di Pieve Vergonte la Compagnia
della brigata nera si porta, nelle prime ore del 30 marzo '45, ad Anzino.
Ecco il racconto di don Eugenio Manini, parroco di
Anzino.
«Erano le 6 del Venerdì Santo 30 marzo 1945:
sento dei colpi di campana
. Impressionato apro la finestra per ricordare
al sacrestano che nel Venerdì Santo non si suonano le campane, e vedo
invece uscire dei soldati dal campanile, e vedo la mia casa circondata da
soldati: comprendo tutto». «Aprire», «mi si grida», «aprire». «Apro la porta e ho
subito la casa invasa da soldati. Vengo spinto nello studio e sottoposto
ad acceso interrogatorio e schiaffeggiato ripetutamente finché cado
stordito e non ci vedo più».
«Rialzatomi vengo condotto a calci nell'atrio della
casa e là rimango appoggiato ad un tavolo in mezzo a due guardie. Chiedo
il permesso di mettermi almeno le scarpe, ma una delle guardie con calma
mi dice»: «Non è necessario reverendo, tanto avete pochi passi da fare
»;
«Vedo allora la mia fine, la fucilazione e mi raccomando al Signore. Vengo
cacciato malamente in cucina con due guardie al fianco e con questa
sentenza»: «Avete un quarto d'ora di tempo». «Che fare? Nient'altro
che pregare. Il quarto d'ora è ben lungo. Quegli sgherri sono i veri
padroni della casa. Ogni locale visitato, ogni cassetto o armadio aperto e
si impossessano di quanto fa loro comodo: denaro. Circa 20 mila lire,
oggetti di argento, biancheria, lenzuola, maglieria e quanto è di loro
gradimento, e finiscono per ubriacarsi tutti».
«Sono passate tre ore
lunghe, fredde, estenuanti
finalmente entra nella mia prigione il comandante alto, magro, prepotente
che mi apostrofa con tanti insulti e volgarità e poi mi ordina di andare
con loro al cimitero e disseppellire un loro commilitone. Dieci giorni
prima è stato trovato ucciso sui monti un milite: il podestà lo ha fatto
portare e seppellire in Anzino, nel nostro cimitero. Per fortuna trovo 4
uomini coraggiosi che si prestano per l'opera. Si è là tutti attorno a
quella fossa che si deve aprire: un centinaio di militari, alcuni
borghesi, presi in ostaggio; io sempre con le guardie, fra me e il
comandante la fossa che si sta aprendo: intorno silenzio davvero
sepolcrale. Quando la cassa è levata e la fossa è vuota, mi sento
gridare»: «Ora il posto è preparato, scenda lei reverendo».
«In quel momento di silenzio uno dei militi grida»: «Bisogna fare le esequie»! «Mi sento rivivere. Con il loro permesso vado in chiesa a
prendere cotta, stola, asperges: ritorno. Finite le esequie e scoperchiata
la cassa fanno l'appello al morto, Adriano N. La cassa viene richiusa e
mentre io ritorno in chiesa essi se ne vanno con il loro morto. Credendomi
libero ritorno in casa ma subito due soldati vengono a prendermi e uno
grida»: «Adesso lo uccidiamo».
«E gli Anziniesi? Il paese è tutto pieno di fumo di tre
case alle quali hanno dato fuoco, ma la gente è tutta preoccupata per il
suo parroco e chi piange, chi prega, chi porta galline, conigli, uova,
burro, formaggio, purché non uccidano il loro prete. Anche quelli di
Bannio si muovono e portano doni al Comandante tedesco di Pontegrande, il
quale assicura»: «Lo salverò», «e si accinge a salire verso Anzino. Ed è allora che una donna più coraggiosa si avvicina a incoraggiarmi
dicendomi che non mi avrebbero ucciso. E dire che è una di quelle donne
cui hanno bruciato la casa e maltrattato la vecchia madre».
«Mentre si scende verso Pontegrande un tedesco viene
incontro e dice al capo dei militi che il Comandante tedesco vuole
interrogarmi e quindi di non toccarmi. Di fatto giunti a Pontegrande la
brigata prosegue col morto ed io vengo trattenuto sullo stradale dal
comandante tedesco che dopo alcune domande mi dice: andate pure. Sono le
ore tredici del pomeriggio del Venerdì Santo 1945. Ritorna ancora la
brigata nera "Ravenna", otto giorni dopo e mi viene a cercare di nuovo,
ma io ho già cercato scampo a Novara presso il Vescovo. Ma non parte
senza spargere sangue: uccide poco distante da casa sua un bravo giovane
anzinese di 22 anni Achille Titoli. Allora Dio mi dà la forza per poter
resistere, ma poi le forze mi vengono meno, mi ammalo e non mi sono ancora
completamente ristabilito, ma spero che Dio tenga conto di tante mie pene
e tribolazioni almeno per l'altra vita».
Sa. Eugenio Manini Parroco Primicerio.
L'assassinio di Achille Titoli, le torture di don
Manini, il saccheggio, l'incendio di case di Anzino non placano i militi
del cap. Raffaeli. La II^ compagnia del battaglione "Muti" rimane in
zona, dà fuoco alle case di Parcinetto, una località nel comune di
Bannio Anzino, dà la caccia e cattura Oreste Volpone di Bannio di 30 anni,
partigiano garibaldino della compagnia garibaldina "Redi", padre di
due bambine, lo trascina nei locali della scuola ove lo tortura e lo
sevizia senza ottenere alcuna risposta alla richiesta di informazioni sui
movimenti dei partigiani, infine, lo trascina ancora fino a Pontegrande e
lo fucila contro il muro di una autorimessa.
L'ASSASSINIO DI BENIAMINO - Cavandone, 31 marzo 1945
Caduto: Beniamino Cobianchi
Beniamino aveva quattordici anni e aveva appena
abbandonato i banchi di scuola. Voleva arruolarsi nelle file partigiane.
Le preghiere dei genitori e i tentativi fatti dal comando, a cui si era
presentato, per farlo desistere da questo desiderio non approdavano a
nulla. Beniamino voleva fare il partigiano. Negli ultimi giorni del marzo
1945 il CLN verbanese aveva progettato un'azione che avrebbe dovuto
portare alla resa di un intero reparto della G.N.R. Occorreva però, per
il buon esito dell'azione, che fra i brigatisti, vi fosse un amico
disposto a dare le informazioni necessarie, e ad aiutare al momento
opportuno.
Troppo conosciuti i vecchi partigiani della "Flaim"
e della "Valdossola"; bisognava trovare un elemento nuovo che non
desse adito ai militi di dubitare della recluta. Dopo parecchie
consultazioni il CNL decideva di interpellare Beniamino e ne otteneva una
pronta e decisa risposta affermativa.
Così il partigiano Beniamino si arruolava nella G.N.R.
e riusciva ad ottenere di montar la guardia al caserma nella notte in cui
si doveva effettuare l'azione sul cui successo contava il CNL. Il
successo arrideva alle forze partigiane. Beniamino svestiva immediatamente
la divisa dei traditori e raggiungeva il comando partigiano. Purtroppo il
ragazzo avendo la mamma e il babbo a Intra voleva raggiungerli per
salutarli e riferire loro dell'azione a cui aveva partecipato. Un
reparto della "Ravenna" lo catturava a Cavandone. Durante l'interrogatorio
il ragazzo non parlava; a nulla valevano le lusinghe o le minacce.
Beniamino era partigiano e conosceva l'importanza di
non tradire i compagni di lotta. Torturato e seviziato opponeva ad ogni
domanda il silenzio. Ormai in fin di vita veniva trascinato presso la
cinta del cimitero e fucilato. Ottanta fori di pallottola furono trovati
nel corpo del partigiano quattordicenne. Dopo poche ore il corpo di
Beniamino era sommerso dai bianchi fiori di campo posati dai piccoli amici
delle scuole elementari di Cavandone.
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LA COSTITUZIONE della REPUBBLICA ITALIANA
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