Home page


Altre notizie dall'archivio dal 2017 al 2018

Altre notizie dall'archivio dal 2015 al 2016

Altre notizie dall'archivio dal 2013 al 2014

Altre notizie dall'archivio dal 2002 al 2012


Le raccolte di fotografie pubblicate sul nostro sito


Calendario della Resistenza: tante date e tanti Caduti da ricordare

Comitato provinciale di Novara


La lotta partigiana nel Novarese
(attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)

Alcune date significative del mese di giugno 1944


"DOM", L'EROICO ALPINO - Oira, 3 giugno 1944

Caduti: Silvestro Curotti, Battista Bazzetta

Silvestro Curotti nasce, nel 1920, in frazione Cortina di Domodossola, ed è figlio di un carrettiere; frequenta le scuole elementari, poi va ad imparare il mestiere di imbianchino. Nel 1940 è chiamato alle armi. Grande e grosso com'è, viene assegnato a un reggimento di artiglieria da montagna e, con il grado di caporale maggiore, entra a far parte del 20º sciatori.

L'otto settembre del 1943 sorprende il giovane Cerotti in Francia, ad Annecy, ma il caporale maggiore ossolano non trova alcuna difficoltà a rientrare in Italia; il 10 settembre, dopo lunga marcia attraversa la Valle d'Aosta, raggiunge la sua Domodossola.

Cerotti si unisce subito ai giovani che danno vita alla "Banda Libertà"; lo troviamo a Cà dei Conti e a Caddo con Boghi, Bollati, Riccomagno, Verdura ecc.; lo ritroviamo davanti al caffè Universo a sottrarre un bel mitragliatore da una camionetta della GdF e, ancora, con il nucleo partigiano che a Monteossolano si libera di due SS.

Il nemico gli dà la caccia in zona e Curotti si arruola, verso la fine del febbraio '44, nel gruppo "Beltrami" che, dopo la morte del Capitano, sta ricostituendo al comando di Bruno Rutto.

Curotti è ormai, dai suoi compagni, chiamato "Dom"; è fra i protagonisti nelle azioni di Ornavasso, Omega, Cesio, Strona, in quella di recupero del materiale lasciato nella zona compresa tra l'alpe Togalla e il Mazzucone. Una delle località in cui la "Volante" (dove "Dom" è stato inserito per il suo coraggio) sosta sovente è Oira, già frazione di Cesara.

La "Volante" di Nino Cristina, di Pierino Lauti, di "Butunin", di "Dom", di Curti, di Guarnori, di Martinoli, di Smaniotti a Oira si riposa e si prepara a nuove azioni; da lì parte, più volte, per raggiungere il lago e trasferirsi con la barca di Serafino Boschetti a Pettenasco, da cui si prende il via per nuove imprese.

Il 3 giugno, verso sera, un centinaio di politzei provenienti da Omegna, raggiungevano Oira. Cristina e i suoi compagni, ritenendo che non sia imminente il pericolo di un attacco nazifascista, trascorrono il pomeriggio festivo nei locali del dopolavoro a giocare alle carte o sul campo di bocce; vi è invece chi, come "Dom", si ferma a casa di amici. "Dom" si trova in casa di Mario Ciocca, che è anche proprietario dell'edificio in cui vi è il dopolavoro al piano terreno. Si fa sera quando qualcuno dà l'allarme: «i tedeschi!»! Sorpresi dall'inaspettata visita, i tre ragazzi riescono a consigliarsi e "Dom" si assume l'incarico di proteggere la ritirata degli altri che hanno il compito di portare al sicuro il materiale in consegna. Lauti riesce nell'intento mentre Bertone, ferito in una precedente azione, viene fatto prigioniero.

"Dom" mantiene l'impegno e rientrato nei locali del Circolo da inizio alla sparatoria contro il nemico.

Uno contro cento, per quattro ore. Nel locale si trova pure un civile. Dopo due ore di combattimento "Dom", che ha già rifiutato la resa, chiede al nemico, distante non più di 20 passi, di sospendere il fuoco per lasciare uscire il civile.

Sono le 22.30 e continua a piovere. Uno degli ostaggi, Battista Bazzetta, ritiene che sia il momento di tentare la fuga: il buio, la pioggia, l'attenzione dei nazisti rivolta a "Dom" sembrano giustificare il tentativo, si butta di corsa verso il bosco ma alcune raffiche di mitra lo abbattono. Intanto la sparatoria non ha tregua, passano le ore; vi è ancora un ordine al Ciocca e al Giorla di rientrare nell'edificio per convincere "Dom" ad arrendersi, ma anche questa volta i due ritornano con risultato negativo

A mezzanotte il capitano Simon vuole farla finita; ordina di buttare benzina nel fienile e di dare fuoco; poi, tramite il Ciocca e il Giorla, tenta, per la terza volta, di convincere "Dom" ad uscire.

"Dom" ha mantenuto la promessa con l'ultimo colpo della sua pistola si è data la morte

Il Comandante Simon concede al partigiano "Dom" l'onore delle armi.


48



CORPUS DOMINI DEL 1944 - Premosello, 8 giugno 1944

Caduto: Bruno Ballabio

Premosello e Colloro, due paesi della bassa Ossola, l'uno al piano e l'altro adagiato sul pianoro sovrastante, a mezza montagna, hanno dato un notevole contributo nella lotta contro il nazismo e il fascismo, in favore e aiuto delle formazioni partigiane.

Premosello e Colloro divengono, ben presto, un punto di appoggio dei partigiani. La gente è con i partigiani. E' evidente che il nemico nazifascista più volte e con ferocia si accanisce non solo contro i partigiani ma contro la popolazione, le sue case, le sue baite.

Giugno 1944: nella prima decade ha inizio il terribile rastrellamento che dura oltre venti giorni e che si abbatte sul Verbano e sulla Bassa Ossola. Reparti della formazione "Valdossola", che riescono a sottrarsi alla morsa che i nazifascisti vanno stringendo nel Verbano, si portano sulle alture di Premosello, a Colloro, alla Colma, all'alpe Casarolo, all'alpe Serena ove, certamente, non manca l'aiuto dei valligiani ed ove trovano un temporaneo luogo di rifugio.

Le provviste sono sempre necessarie e si devono fare a Premosello. L'8 giugno, il giorno del Corpus Domini, sono di corvé i partigiani Ballabio e Scalabrini; nei pressi del ponte di Premosello si fermano a parlare con tre persone del luogo quando improvvisamente uno dei borghesi sussurra concitatamente: «i tedeschi!»! Infatti due camionette cariche di tedeschi e repubblichini giungono in paese e si arrestano in piazza. Mentre i borghesi si rifugiano nel vicino albergo, i due partigiani danno inizio alla sparatoria, cercando, nel contempo, di raggiungere gli orti nella speranza di defilarsi e, quindi, di spostarsi nella boscaglia.

Ricorda Scalabrini: «quando Bruno si accorge che l'accerchiamento sta per completarsi, si rivolge, sotto l'uragano di fuoco, a me e mi dice: «tengo io, salvati»! Bruno, da solo, con le scarse munizioni, ma con grande coraggio, tiene testa, per quasi mezz'ora, ai tedeschi e ai fascisti. Cessa il fuoco, si sentono ancora per qualche minuto le urla degli assalitori, poi ricade il silenzio nella grande valle. Quando i nazifascisti se ne vanno, la popolazione va alla ricerca di Bruno. Eccolo! Numerose sono le ferite al petto, ma ha pure tre pugnalate nella schiena». (1)

(1) Solo dopo alcuni anni dalla morte si è venuti a conoscenza delle generalità e del luogo di nascita del giovane caduto, Bruno Ballabio di Inverigo Bigoncio (CO). Scalabrini, ferito a Premosello, cade in Valgrande il 20 giugno 1944.


48



ASSASSINIO ALLA S.I.A.I. - Borgomanero, 10 giugno 1944

Caduto: Ottavio Grossini

"Rapporto" del Comando Provinciale della GNR di Novara, Presidio di Arona

Prot. 224/B Div. 3º Arona, li 10 giugno 1944-XXII

«Ore 8 stamani in Borgomanero (Novara) circa 750 operai dello stabilimento SIAI dopo iniziato il lavoro, in segno di protesta contro la Direzione, perché questa aveva trasferiti allo stabilimento di Sesto Calende (Varese) gli impiegati Annichini Carlo e Ciuffi Gaetano e a causa delle dimissioni presentate, per divergenze con la suddetta Direzione, dall'impiegato tecnico Franzoni Mario, iniziavano sciopero bianco, senza ricorrere ad atti di violenza.

Successivamente alle ore 10.30 il Franzoni si recava allo stabilimento e dopo il colloquio avuto con la commissione di fabbrica, invitava gli operai a riprendere il lavoro.

Nel frattempo e proprio nel momento in cui gli operai si accingevano a riprendere il lavoro, giungevano sul posto alcuni militari tedeschi che, ancor prima di entrare nello stabilimento, sparavano vari colpi di arma da fuoco in direzione diverse, ferendo ad una gamba l'operaio Grossini Ottavio, il quale, in seguito ad emorragia, alle 12 di oggi decedeva all'ospedale di Borgomanero
».


48



"105.099" - Dortmund, 13 giugno 1944

Caduto: Felice Bonfantini

Una famiglia di antifascisti, una famiglia socialista. Il prof. Giuseppe Bonfantini è Sindaco di Novara prima dell'avvento del fascismo e presidente dell'amministrazione provinciale di Novara dopo la Liberazione ha cinque figli: Felice, Mario, Vera, Corrado e Sergio, noti per la loro attività di opposizione e resistenza al fascismo.

Felice Bonfantini - nato a Novara il 30 marzo 1912 - è nei ricordi di Piero Fornara (primario di pediatria dell'Ospedale Maggiore di Novara) «serio, riflessivo anche nella sua infanzia studiosissimo e di poche parole». Conseguita a Novara la licenza liceale, frequenta l'Università di Milano e si laurea in medicina. Assunto dell'ospedale Maggiore di Novara, presta servizio presso l'ambulatorio di pediatria diretto dal primario prof. Piero Fornara.

Felice Bonfantini, detto "Cino" da parenti ed amici, segue il suo maestro nello studio e nell'uso, «tra i primissimi in Italia, dei preparati per la cura della meningite». Quando insorge, nel 1935-'36, un'epidemia di meningite cerebro-spinale, la cura è provvidenziale; con i sulfamidici la malattia viene guarita in una percentuale vicina al cento per cento.

Felice Bonfantini non è ammesso alla Scuola Militare di Firenze - scuola militare per i laureati in medicina - perché svolge attività antifascista. Chiamato alle armi, è assegnato all'Ospedale Militare di Torino. In quel periodo entrano in Ospedale numerosi soldati affetti da meningite; «davanti ai gallonati ufficiali medici torinesi», ricorda Piero Fornara «Cino consegue un vero trionfo nell'indicare loro come si cura la meningite».

Nel 1941, il sottotenente medico Felice Bonfantini viene inviato in Grecia con il "63º Gruppo Artiglieria Contraerea" e non appena giunto a destinazione «preoccupato dalla fame del popolo greco, si dedica, con entusiasmo, alla cura dei bambini di quella disgraziata nazione, nonostante l'assoluto e inumano divieto delle nostre autorità».

Proprio per la sua opera umanitaria nei confronti della popolazione, viene avvicinato dai patrioti del Movimento (clandestino) popolare ellenico, movimento sorto in opposizione al governo fascista del generale Metaxas.

Dopo l'8 settembre 1943, Cino trova rifugio presso alcune famiglie di patrioti di cui ha curato i figli, ma, nel mese di dicembre dello stesso anno, viene arrestato e inviato al Kriegsgefangenerlager (campo di prigionieri di guerra) di Versen, con il n. 105.099. In seguito Cino viene trasferito allo Stammlager di Durtmund, in Vestfalia, nell'arbeiters Kommando 1242 ove continua, con grande coraggio, la sua opera umanitaria a favore dei lavoratori italiani come lui rinchiusi nel campo di internamento.

A Dortmund, il 13 giugno 1944 si spegne Felice Bonfantini che fino all'ultimo ha difeso, con le sue fraterne cure, la vita dei suoi compagni di prigionia. (2)

(2) Il prof. Piero Fornara - primario di pediatria all'Ospedale Maggiore della Carità di Novara - ha scritto per "Resistenza Unita" del gennaio 1972 l'articolo «Un medico e soldato antifascista novarese: Felice Bonfantini (Cino)» da cui è tratto questo racconto.


48



FUCILAZIONE ALLA CAPPELLA DI S. BERNARDO - Punta di Migiandone-Ornavasso, 14 giugno 1944

Caduti: Felice Cattaneo, Bartolomeo Oliaro, Remo Rabellotti, Edoardo Rossi

In questi giorni di giugno le azioni dei partigiani si susseguono; occorre rifornirsi di armi, di munizioni, di viveri per fare fronte alle necessità che derivano dall'arrivo continuo di giovani che, per evitare di presentarsi ai centri raccolta delle forze armate della R.S.I., si uniscono alle forze partigiane. Gli ultimi arrivati si danno da fare e, sovente, sono i più entusiasti e si offrono volontari anche per le azioni più rischiose.

Nella valle del Massone al Boden, alla Capanna Legnano e a Cortemezzo vi sono il Comando ed alcuni reparti del Gruppo Patrioti Ossola, la formazione che sta sviluppandosi e che ha come guida Alfredo Di Dio; in seguito assumerà la denominazione di "Valtoce". Nel pomeriggi dell'11 giugno, il Comando della Formazione viene informato dell'esistenza, alla stazione di Gravellona Toce, di un vagone pieno di sacchi di farina: il mattino seguente, tutto quel ben di Dio partirà per la Germania.

Non vi è tempo da perdere; si costituisce immediatamente un gruppo di una trentina di volontari a cui viene affidato il compito di prelevare, nel corso della notte (dall'11 al 12 giugno), l'intero carico di farina, sottratta dai nazifascisti agli ossolani, per sfamare i tedeschi.

L'azione di prelevamento si conclude - per la prima parte - felicemente; tutti i sacchi prelevati dal vagone vengono depositati in un cascinale con l'intesa di provvedere, la notte seguente, al trasporto del prezioso carico in un luogo più idoneo. Il Comando, infatti, ritiene che la farina debba essere consegnata ai forni della zona per la confezione del pane da distribuire alla popolazione.

Sulla strada del ritorno verso la base partigiana, una squadretta composta da Felice Cattaneo di 20 anni, Bartolomeo Oliaro di 18 anni, Remo Rabellotti di 24 anni e Edoardo Rossi di 21 anni (guidata dal più anziano, il galliatese dottore in veterinaria Rabellotti) si ferma sulla strada del ritorno in un cascinale per chiedere del latte e del pane. Quando i quattro giovani escono dal cascinale per riprendere il cammino, si accorgono di essere circondati da tedeschi.

Prontamente Felice Cattaneo, che è in possesso di fucile mitragliatore, spara una raffica, mentre Remo Rabellotti lancia contro i più vicini una bomba a mano. Rimane ucciso un tedesco e un altro si lamenta per essere stato colpito, ma la sia pur pronta reazione dei partigiani viene soffocata dalla superiorità numerica, in uomini e in armi, del nemico.

Disarmati e legati, i quattro giovani vengono, a calci, a pugni e a randellate, spinti lungo la salita del Boden, sia per fare esca ai compagni, sia per fare da scudo ai tedeschi in caso di attacco. Ma né al Boden, né alla Capanna Legnano i tedeschi trovano i partigiani ritiratisi nella boscaglia e più in alto e il tentato blitz va a vuoto. I quattro partigiani catturati vengono riportati ad Ornavasso, rinchiusi in un locale delle scuole elementari e sottoposti a inaudite torture nelle giornate del 12 e del 13, in parte, del 14 giugno.

Nel pomeriggio avanzato del 14 giugno, Cattaneo, Oliaro, Rabellotti e Rossi, che hanno subito la selvaggia violenza del nemico senza rispondere alle reiterate richieste di informazioni sui loro compagni di lotta, vengono prelevati, trascinati a due macchine in sosta dinanzi alle scuole e, con la scorta di un reparto fascista, vengono portati sulla strada di Migiandone, nei pressi della Cappella di S. Bernardo.

I quattro giovani partigiani, buttati fuori dalle macchine, con le mani legate dietro la schiena, sono costretti ad inginocchiarsi a distanza di un metro circa l'uno dall'altro.

E' un milite che ha il compito di assassinare i quattro patrioti di Alfredo Di Dio; passa dall'uno all'altro sparando a ciascuno dei condannati due colpi di rivoltella, uno alla nuca e uno al petto.

Remo Rabellotti è l'ultimo e un attimo prima che il carnefice esegua la sentenza, grida «Viva l'Italia libera».


48



ASSASSINIO ALLA FONTE - Alpe Fornà, 16 giugno 1944

Caduti: Andrea Bottigelli, Ubaldo Cavallasca, Gian Franco Maceri, Antonio Motta, Guido Orlandi, Rolando Raimondi, Italo Visco

E' in corso il terribile rastrellamento di giugno, un rastrellamento che vede impegnati oltre diciassettemila nazifascisti, formidabilmente armati, con reparti specializzati nella guerriglia antipartigiana, con l'appoggio di mezzi corazzati, artiglieria pesante e aerei. Le operazioni si effettuano in modo particolare, nel Verbano, nella Cannobina, nella zona est della Bassa Ossola; lo scopo della operazione è quello di arrivare all'eliminazione delle bande partigiane che stanno rafforzandosi, dilagando, e che colpiscono seriamente i posti di blocco, i presidi e le colonne in transito dei nazifascisti.

Sono le prime ore del mattino del 16 giugno. Protagonista dell'azione è una squadretta della formazione "C. Battisti". I tedeschi sono bloccati all'Alpe Vadà; potrebbe essere questo il momento opportuno di tentare lo sganciamento e ritirarsi oltre il costone della Zeda e così fa un piccolo reparto partigiano rendendosi conto che le cose peggiorerebbero se ai tedeschi giungessero rinforzi.

Il piccolo reparto partigiano è composto dai diciottenni Andrea Bottigelli, Ubaldo Cavallasca, Gianfranco Maceri, Guido Orlandi, dai diciannovenni Antonio Motta e Rolando Raimondi, dal ventisettenne Italo Visco e da "Rino il veneto". Gli otto partigiani si portano all'Alpe Fornà ove si preparano ad affrontare i nazifascisti provenienti dal basso, mentre non si accorgono del sopraggiungere, dall'alto, di una colonna nemica.

Quando gli otto della "Battisti" si accorgono di trovarsi fra due fuochi è ormai troppo tardi. Il nemico dà numerose volte l'assalto alla posizione partigiana. Gli otto giovani coraggiosi non si arrendono e respingono gli assalitori, ma l'impari lotta non può continuare; cadono, uno ad uno, colpiti a morte; solo tre, ormai senza munizioni e feriti, «aggrappati l'un l'altro sorgono dalla terra e camminano contro il nemico».

Interrogati e picchiati, "Cucciolo", "Bruno" e "Rino" non parlano e chiedono solo dell'acqua da bere; "Rino", mentre gli altri due compagni vengono accompagnati alla fonte, viene trattenuto da un soldato.

«Ritornano l'eco di una scarica e i soldati di scorta».

"Rino il veneto" è costretto a fare il mulo per il trasporto delle munizioni dei nazisti, poi, unito ai rastrellati civili, viene inviato in un campo di concentramento in Germania.


48



ALLA BASE DEI ROCCIONI - Pizzo Marona, 17 giugno 1944

Caduti: Remo Barberi, Mario Brusca, Eliano Crespi, Mario Flaim, Gaetano Garzoli, Franco Guerra, Mario Nigiotti, Fulvio Zigliotti, 3 ignoti

Un pugno di uomini della "Giovine Italia", la banda nata subito dopo l'otto settembre del 1943 a Pian Cavallone, nell'Alto Verbano, nel corso del terribile rastrellamento di giugno, sbaraglia un'autocolonna della legione "Leonessa" e ne liquida l'intero comando.

I nazisti, che subentrano ai legionari neri nell'assalto alla postazione partigiana, il 15 giugno non hanno miglior fortuna dei loro camerati ma, anzi sono costretti a chiedere una tregua, peraltro concessa, per raccogliere i propri morti e feriti. Poi entra in campo l'artiglieria pesante, cannoni, mortai, mitragliere da 20 mm. E i partigiani, approfittando del buio della notte, si sganciano abilmente. Il trentino tenente Mario Flaim, con il suo piccolo reparto, si porta al Vadà per dare man forte ai compagni. Questi resistono fino a che la situazione non si fa disperata ed il giovane tenente è l'ultimo a inoltrarsi nel faggeto restrostante, dopo aver tirato le ultime raffiche con la sua mitragliatrice Glisenti.

Nella notte del 16 giugno, il tenente Mario Flaim e i suoi uomini raggiungono, a Pizzo Marona, il comandante "Rolando"; il coraggioso, infaticabile giovane ufficiale si assume il compito di organizzare la difesa nei pressi della cappella. E', evidentemente, una difesa di votati alla morte, ma si tratta di impegnare il nemico per dare il tempo al "grosso" di portarsi oltre i roccioni, salvando la vita di molti compagni ancora disarmati.

Undici giovani partigiani cadono a Pizzo Marona.

«Undici corpi alla base dei roccioni che guardano sulla Val Pagallo» scrive Nino Chiovini. Il tenente degli alpini Mario Flaim è ritrovato «fra le rocce della tragica Marona, il volto esanime, massacrato, rivolto al sole».


48



COSTRETTI A SCAVARSI LA FOSSA

Rovegro, 12 giugno 1944

Caduti: Alberto Mazzola, William Scalabrino

Aurano, 17 Giugno 1944

Caduti: Felice Antoniazza, Giovanni Borotti, Antonio Colombo, Bruno Gussoni, Tommaso Pessina, Franco Pomice, Ignotoo

Ponte Casletto, 17 giugno 1944

Caduti: Pasquale Riveda, Ignoto

Falmenta, 18 giugno 1944

Caduti: Emilio Benni, De Paoli Giovanni, Lupi Ausano, Perego Natale

Pogallo, 18 giugno 1944

Caduti: Bruno Cerutti, Fausto Colombo, Giacomo Crippa, Italo Demari, Ives Garlando, Mario Gavitelli, Leonardo Griffino, Elio Maggioni, Luigi Novati, Celestino Nicolò, Carlo Rocca e 7 Ignoti

Mario Muneghina, il cap. "Mario" della divisione autonoma "Valdossola" ricorda ciò che avviene nel giugno del '44: «le divisioni naziste e le legioni fasciste dopo aver bloccato tutto il traffico lacustre, ferroviario e stradale nella zona compresa nel quadrilatero Valdemara, Pallanza, Masera, Valle Vigezzo, Cento Valli, dopo aver piazzato centinaia di carri armati e di autoblindo a cento metri l'uno dall'altro, lungo tutto il perimetro della zona e mentre truppe alpine manovrano per occupare i passi del confine svizzero, attaccano da ogni lato i 400 partigiani».

In quel quadrilatero attorno cui si ammassano oltre diciassettemila nazisti e fascisti, «truppe speciali» addestrate alla guerriglia, ci sono «i falchi della Val Grande, gli audaci della Marona e dello Zeda di cui i presidi tedeschi e fascisti della sponda ovest del Lago Maggiore hanno provato il mordente».

«Le gesta di quegli uomini hanno assunto, nella fantasia popolare, proporzioni gigantesche fino al punto di ritenere per certo che siano almeno cinquemila, annidati nelle aspre valli che solcano la zona. Sono solo 400 e non più di 300 armati alla meno peggio».

Nel pomeriggio avanzato del'11 giugno ha inizio il rastrellamento, «moschetti contro cannoni e mortai» ricorda il cap. "Mario", «mitra e sten contro mitragliatrici pesanti mentre gli aerei solcano minacciosi il cielo mitragliando e spezzonando». Un esercito contro un pugno di uomini. Eppure i partigiani si battono ovunque, con grande coraggio, fino all'esaurimento delle munizioni, fino alla morte.

Una colonna motorizzata tedesca punta su Ponte Casletto; i partigiani resistono fino al tramonto del giorno 12. Il cap. "Mario" ordina ai reparti che si battono a Ponte Velina e a Ponte Casletto di portarsi in Val Pogallo. I feriti vengono dirottati in località lontane dalla zona del fuoco; sempre attivissima la giovane infermiera Maria Peron segue i feriti portandosi dall'uno all'altro, offrendo i suoi servizi, dimostrando capacità e grande passione per la missione che ha scelto.

Ai piedi dell'Aurasca, sull'omonimo rio, sorgono le poche case di Pogallo. Nell'intera zona si combatte senza soste e ovunque i nazifascisti lasciano il segno della loro ferocia; i partigiani Alberto Mazzola e Willam Scalabrino vengono catturati a Ponte Casletto, torturati e poi, il 12 giugno, fucilati a ridosso del muro di cinta del cimitero di Rovegro.

I nazifascisti raggiungo Pogallo il 14 giugno; il 15 giugno recuperano, alla Bocchetta di Campo, il materiale di un lancio effettuato da un aereo alleato che, nella notte, ha scambiato i fuochi di un bivacco per le segnalazioni convenute in caso di lancio. Sempre a Pogallo, il comandante tedesco si insedia nel fabbricato di un'impresa boschiva.

Il 17 giugno, ad Aurano, sette partigiani, Felice Antoniazza, Giovanni Borotti, Antonio Colombo, Bruno Gussoni, Tommaso Pessina, Franco Pomice ed un altro compagno di cui non si conosce il nome, sono costretti a scavarsi la fossa, poi vengono fucilati; sempre nello stesso giorno, a Ponte Casletto, vengono fucilati Pasquale Riveda e un altro partigiano di cui non si conoscono le generalità: il 18 giugno, a Falmenta, vengono fucilati Emilio Benni, Giovanni De Paoli, Ausano Lupi, Natale Perego.

Ed ora è la volta di Pogallo.

Nei pressi dell'Alpe Baldessant, vengono catturati, esausti per il digiuno, la stanchezza e il permanente stato di tensione, dieci partigiani; il più giovane non ha ancora compiuto i sedici anni, il più anziano ne ha ventidue.

Il partigiano Aldo Ruffo, scampato alla morte internato in Germania e miracolosamente scampato ancora una volta alla morte racconta che, durante la discesa verso Pogallo, un soldato tedesco cade in un rio; quattro giovani prigionieri gli salvano la vita; pare che il nemico voglia dimostrarsi riconoscente, li rassicura sulla loro sorte e dà loro da mangiare, poi li accompagna alla sede del comando, a Pogallo.

Nella notte tra il 17 e il 18 giugno vanno ad aggiungersi ai dieci prigionieri altri otto partigiani catturati alla Bocchetta di Campo. Nino Chiovini racconta: «Ai dieci catturati il giorno precedente viene ordinato di scavare una lunga fossa alla base del sottostante terrapieno. Essi cominciano a dubitare della assicurazione dell'ufficiale tedesco. Alle undici ha inizio la cerimonia conclusiva; uno alla volta ogni prigioniero viene convocato nell'ufficio della teleferica e gli viene fatto firmare un verbale scritto in tedesco; poi un soldato lo accompagna al margine della fossa, gli legge nella sua lingua ciò che è scritto nel foglio che tiene in mano; lo fa spogliare, infine lo lascia solo davanti a sei mauser puntati. Un gutturale, secco comando e la scarica parte. I mauser vengono subito ricaricati in attesa dell'esecuzione successiva».

«Presto ci si impratichisce e si perde minor tempo; il tedesco legge durante la svestizione, cosicché il condannato, appena spogliato, trova il posto libero sull'orlo della fossa senza dovere attendere che finiscano con quello che precede. Così muoiono i diciotto partigiani di Pogallo».


48



MARCIA VERSO LA MORTE - Fondotoce, 20 giugno 1944

Caduti: Giovanni Alberti, Giovanni Barelli, Carlo Antonio Beretta, Angelo Bizzozzero, Emilio Bonalumi, Giglio Battelli, Luigi Brioschi, Luigi Brown, Dante Capuzzo, Sergio Ciribì, Giuseppe Cocco, Adriano Corna, Achille Fabbro, Olivo Favaroni, Angelo Freguglia, Franco Ghiringhelli, Cosimo Guarneri, Giovanni La Ciacera, Franco Marchetti, Arturo Mezz'agora, Rodolfo Pellicelli, Giuseppe Perraro, Ezio Rizzato, Marino Rosa Aldo, Rossi, Carlo Sacchi, Cleonice Tomasetti, Renzo Villa, Giovanni Volpati, Frank Hellis e 12 Ignoti

Il rastrellamento

Sono ormai otto giorni che i partigiani delle formazioni "Valdossola", "Giovine Italia", "Battisti" e "Perotti" resistono, sulle alture del Verbano, al massiccio e feroce attacco del nemico, che conta su una forza di oltre diciassettemila uomini, molti dei quali addestrati alla guerriglia, poderosamente armati, e sostenuti dall'artiglieria pesante e dagli aerei che segnalano la presenza dei partigiani nelle vallate e che seminano la morte mitragliando e spezzonando. I partigiani combattono con grande coraggio e valore, colpiscono i nazifascisti con veloci e ardite azioni di sorpresa, ma le forze del nemico sono soverchianti.

Quattrocento partigiani abbarbicati sui monti del Verbano, della Cannobina e della Valle del Toce rimanevano chiusi nella morsa.

Il nemico, fortemente armato ed equipaggiato, avanzava razziando, bruciando, distruggendo tutto ciò che trovava sul suo cammino, sull'Ossola si abbatte la violenza degli Unni della Germania di Hitler e dei loro camerati fascisti: decine e decine di torturati e di fucilati; decine di case, cascinali, baite saccheggiate e distrutte. Un bilancio pesante per le popolazioni e i partigiani e siamo appena alla metà dell'opera devastatrice condotta dai nazifascisti nei 18-20 giorni del giugno 1944.

Dall'Asilo di Malesco a Villa Caramora di Intra

In un primo tempo i giovani partigiani catturati nel corso dei rastrellamenti vengono rinchiusi nelle cantine dell'Asilo Infantile di Malesco e sottoposti a incredibili torture. Il giorno 20 giugno, nelle prime ore del mattino, quarantuno prigionieri vengono caricati su due grossi autocarri e, da Malesco, vengono trasferiti a Villa Caramora di Intra che è sede del Comando SS.

Ricorda l'avv. Emilio Liguori, presidente del tribunale di Verbania, arrestato qualche giorno prima per sospetta attività antifascista e già "ospite" della cantina di Villa Caramora: «la porta della cantina si apre e viene fatta entrare una trentina di persone, spinte avanti da calci e a colpi di canna di moschetto da una squadra di omacci inferociti, bestiali, i quali indossano la cosiddetta onorata divisa del soldato del popolo eletto, dell'herrenvolk, del superpopolo: il teutonico».

«La scena che dopo l'ingresso in cantina di tanti disgraziati si presenta al mio sguardo, è delle più penose alle quali io abbia mai assistito". Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un branco di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi di calcio del moschetto, le nerbate non si contano più. E' una vera gragnuola che si abbatte inesorabilmente su dei miseri corpi già grondanti sangue per ogni dove, su dei visi già tumefatti per le percosse ricevute in precedenza. Gli aguzzini sembrano presi nel turbine di un sadico furore, in preda al delirium tremens di marca tipicamente teutonica. Ogni nerbata, ogni colpo è per giunta accompagnato da un grugnito che sta a indicare la compiacenza dei carnefici. Una scena orribile, dico, con la quale contrasta con la nobile serenità dei torturati. Non un grido, non un lamento. Una fierezza diffusa sul volto di tutti. Dal mio posto di osservazione ogni tanto sono costretto a chiudere gli occhi per non vedere. Temo di impazzire per lo sdegno suscitato in me da tanto scempio, cui sono costretto ad assistere impotente».

«Il vertice della furibonda esplosione di odio contro quei poveri partigiani viene raggiunto quando, ordinato loro di distendersi bocconi a terra, i teutonici si mettono a pestarli camminandoci sopra con gli scarponi chiodati, grugnendo animalescamente».

«Noto che tra i partigiani vi è una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non vengono risparmiati i maltrattamenti; anzi, sto per dire che la dose delle angherie sia nei suoi confronti maggiore. Mi pare che quando arriva il suo turno il nerbo si abbassi sulle sue spalle con maggior furore e più violenti sono i calci che la raggiungono da ogni parte. Eppure quella coraggiosa donna non solo incassa ogni colpo senza emettere un grido, ma, calma e serena, fa coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale».

«Ravviso con una fitta al cuore, che tra i partigiani c'è anche il caro tenete Rizzato del campo 12 (il comando di Orfalecchio) l'aiutante maggiore del gruppo».

«Sul suo bel volto, di un ovale perfetto, dagli occhi già pieni di tanta luce, è diventato una povera maschera intrisa di sangue, orribilmente tumefatta per le percosse ricevute. Lo riconobbi a stento».

La marcia verso la morte

Ore 15 del 20 giugno 1944, un reparto delle SS preleva dalla cantina di Villa Caramora quarantatré persone (i quarantuno provenienti da Malesco, più Cleonice Tomassetti e Marino Rosa, un operaio di Intra arrestato due giorni prima mentre era in procinto di organizzare un'azione di sabotaggio).

Ed è ancora il magistrato Emilio Liguori che ricorda:

«I guardiani danno un'occhiata alla loro divisa. Alcuni si tolgono la tuta mimetica, rimanendo in camicia e pantaloni marrone. Qualcuno manovra per provare i congegni dell'arma della quale è in possesso; tutti poi si danno con fervore a ravviarsi i capelli, guardandosi nello specchio del quale ognuno è in possesso, e avendo cura che la scriminatura segni un'impeccabile linea retta, dall'occipite alla regione frontale sinistra, senza sgarrare di un pelo. Tutto questo dà l'impressione di gente in procinto di recarsi ad assistere a uno spettacolo che si preannunci assai divertente, e non già di persone che, per contro, si accingono a compiere un eccidio senza nome. Lo spettacolo che sta per essere ammannito viene subito intuito dalla donna (Cleonice Tomassetti) alla quale ho accennato sopra. Costei si leva in piedi e con fare spontaneo, senza forzare il tono della voce, direi quasi con amorevolezza, rivolta ai compagni di sciagura pronuncia queste testuali parole: «su, coraggio ragazzi, è giunto il plotone d'esecuzione. Niente paura. Ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da spie, da servitori dei tedeschi». Ha appena finito di parlare che, infuriato, le è addosso un soldato germanico che deve capire un poco l'italiano o che del senso delle parole pronunciate viene messo al corrente da un militare italiano. (Quale schifo il contegno servile verso i padroni tedeschi dei militi fascisti! Non di tutti per fortuna, perché ne vedo più di uno fremere di rabbia osservando ciò che di orribile si compie attorno a lui)».

«La donna, colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso, non si scompone; incassa impassibile, e poi, fiera e con aria ispirata, quasi trasumanata, dice parole, che, per mio conto, la rendono degna di essere paragonata ad una donna spartana, o meglio ancora ad una eroina del nostro Risorgimento: «Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che è opera vana: quello non lo domerete mai!», poi rivolta ai compagni «Ragazzi, viva l'Italia, viva la libertà per tutti», grida con voce squillante».

Si forma la colonna alla cui testa vi è il tenente Ezio Rizzato, affiancato da Cleonice Tomassetti, mentre ai lati due partigiani costretti a tenere i bastoni a cui è affisso un cartello con la scritta "SONO QUESTI I LIBERATORI D'ITALIA OPPURE SONO BANDITI".

I quarantatré, incolonnati, preceduti, seguiti e fiancheggiati da una consistente "muta" di nazisti, percorrono, a piedi, la strada che da Intra porta a Fondotoce, attraverso Pallanza e Suna e l'intero abitato della frazione di Fondotoce.

L e strade sono deserte

La colonna dei condannati a morte, dei quarantatré giovani combattenti della libertà che portano, profondi, i segni delle torture subite nelle cantine dell'Asilo di Malesco e di Villa Caramora, percorrano la strada della loro via Crucis tenendo fieramente il capo eretto.

Lungo, interminabile il cammino sotto il sole, in una afosa giornata di giugno che porta con sé la Morte. Ecco, finalmente ai piedi del monte, sul greto del canale che allaccia il lago di Mergozzo al lago Maggiore, ai confini fra il Verbano e l'Ossola, in una vasta piana affossata, ha termine il cammino dei martiri. Sono le 18 del 20 giugno 1944.

L'ordine è di presentarsi tre per tre dinanzi al plotone d'esecuzione. La donna, Cleonice Tomassetti, prima di portarsi dinanzi ai carnefici, grida: «Viva l'Italia libera» e i compagni di martirio ripetono «Viva l'Italia libera». Il rito dura quasi un'ora poi l'ultima raffica e i colpi di grazia.

Nelle prime ore della notte, dal mucchio dei morti, sia pur ferito in più parti, esce, aiutato da alcuni abitanti di Fondotoce, il partigiano Carlo Suzzi. Dopo circa un mese lo scampato alla morte, ristabilito, riprende il suo posto nella formazione "Valdossola" e, da quel momento, i compagni lo chiamano "Quarantatré".

A Fondotoce, sul luogo dell'eccidio, nel 1963, il Comune di Verbania ha innalzato un monumento. Sulle rosee lastre del marmo di Candoglia, sono stati scritti i nomi di milleduecento caduti della Provincia di Novara (comprensiva anche del Verbano Cusio e Ossola). Dal campo di sterminio nazista di Mauthausen sono state trasportate le ceneri che sono deposte nell'urna ai piedi dell'alta Croce.


48



UN GENEROSO COMANDANTE PARTIGIANO - Loita di Baveno, 20 giugno 1944

Caduto: Franco Abrami

Nella zona del Mottarone, da tempo, operano alcuni gruppi, più o meno consistenti, di partigiani; alla loro guida vi sono Renato Boeri "Renatino", Giulio Lavarini e Franco Abrami. "Renatino", con i suoi uomini, opera nella zona dell'Alpe Formica ove, in «una baita ai margini di un bosco sulle pendici del monte Cornaggia, sopra Sovazza e in direzione di Massino» vi è una radio clandestina quotidianamente in contatto con il Quartier Generale Alleato.

Nei pressi della zona stessa operano gli altri due gruppi, quello comandato da Lavarini "Tom Mix" e quello comandato dal ventenne Franco Abrami; quest'ultimo è al comando di una quindicina di giovani arditi che si fanno chiamare "lupi del Mottarone".

Già alla fine di maggio i tre gruppi si sono uniti al "Iº Gruppo Ossola" comandato da Alfredo Di Dio. Nella zona, dice Renato Boeri «si ha notizia da radio Londra di forti concentramenti di forze tedesche e fasciste sul Verbano e di grossi rastrellamenti nella zona della Val Grande; già alcune puntate si sono verificate sulle pendici del Mottarone. Franco è ansioso di agire e mi dice che vuol recarsi a Baveno, dove ha sede il Comando tedesco della zona, per fare dei prigionieri e porsi quindi in una posizione di forza». Ricorda l'amico Alloisio che Franco, «conscio dell'arduo compito assuntosi, non tralascia mai impresa, pericolosa che sia, pur di infliggere perdite al nemico».

«Non vuol perdere un'occasione che gli permetta,» ricorda Tino Vimercati «con una azione a sorpresa e rapida, di fare dei prigionieri nazisti e fascisti e chiedere il cambio con partigiani e civili catturati nel rastrellamento in corso».

Franco Abrami, con Oreste Domard, Vincenzo Baroni, Mariolino De Lorenzi, Luigi Cavagliato e Pietro Lilla, lascia il campo base, si porta a Gignese dove requisisce un'automobile e si dirige verso Baveno. I sei partigiani raggiungono la roccaforte nemica senza incontrare ostacoli. Cavagliato e Lilla si dirigono verso la stazione ferroviaria e, durante il percorso, fanno prigionieri due soldati tedeschi e tre militi fascisti.

Franco con Domard, Vincenzo e Mariolino, si porta sulla statale 33, sul lungolago e, quasi subito, i tre giovani si trovano di fronte a un'automobile scoperta; Mariolino, imbracciando il mitra, balza in mezzo alla strada e intima l'alt!, la macchina si ferma, ma gli occupanti, un capitano tedesco, un maggiore e un sergente della milizia oltre all'autista (provenivano da Fondotoce dove nella stessa giornata è avvenuto l'eccidio dei 42 martiri), tentano di reagire; nella sparatoria che segue cadono, colpiti a morte, i due ufficiali, il sottufficiale rimane ferito e l'autista si salva con la fuga. Evidentemente la sparatoria dà l'allarme al Comando tedesco e, quindi Franco e Domard, si ritirano verso la stazione dove si incontrano con Cavagliato e Lilla che hanno già caricato su un camion i loro prigionieri. Vincenzo e Mariolino trovano rifugio in casa di amici di Baveno.

Non vi è tempo da perdere. Franco «posto un prigioniero alla guida del camion, si siede sul parafango anteriore» invita i suoi compagni a proteggergli la partenza di fronte al nemico che ormai ha raggiunto la piazzetta della Stazione e, quindi, a seguirlo a bordo della macchina prelevata a Gignese; poi, il giovane comandante, con il fucile puntato, ordina all'autista di imboccare la strada che porta verso la montagna.

I tre compagni di Franco si difendono, con grande coraggio, per il tempo necessario al camion di defilarsi, quindi salgono in macchina e, a tutta velocità, prendono la strada dei monti. A non più di mezzo chilometro dal luogo di partenza, dinnanzi alla villa Nido, i tre partigiani trovano, in mezzo alla strada, in una pozza di sangue il loro comandante «probabilmente ucciso da uno dei prigionieri che aveva occultato una rivoltella». Tino Vimercati ricorda che «dalla villa Nido ove lavorava, esce la mamma di Franco che resta impietrita dinnanzi al cadavere del giovane figlio. La scena è straziante» ma i tre partigiani, che sanno di essere inseguiti, caricano il loro comandante nell'auto e raggiungono l'accampamento.

Gli altri due partigiani rimasti a Baveno riescono a sfuggire alla cattura, aiutati dai cittadini di Baveno, rimangono nascosti durante la notte e il giorno seguente rientrano al campo base.

La "IIª Brigata Mottarone" della divisione "Valtoce" prenderà la denominazione di "Brigata Franco Abrami".


48



TRA LE AIUOLE FIORITE - Baveno, 21 giugno 1944

Caduti: Ettore Aielli, Antonio Buraschini, Aquilino Colombo, Pericle Tudescato, Ferruccio Valaguzza, G. Pietro Zaccaria e 11 Ignoti

Il giorno successivo all'eccidio di Fondotoce e all'azione di Franco Abrami, seguita dal suo assassinio, i nazisti trasferiscono dal carcere, ove sono rinchiusi, sul lungolago di Baveno diciassette partigiani della formazione "Valdossola", catturati nel corso di un rastrellamento.

Quattro alla volta, «tra le aiuole fiorite», li falciano a raffiche di mitra. Undici dei diciassette partigiani trucidati non saranno identificati in quanto i banditi nazifascisti hanno sottratto loro non solo denaro e catenelle d'oro come d'abitudine, ma anche i documenti d'identità. Ed ecco il comunicato della Questura di Novara pubblicato da Il Popolo Novarese del 29 giugno 1944:

«Il Comando Germanico, in seguito al vile assassinio di due ufficiali avvenuto il 20 corrente, ha ordinato la fucilazione di 17 banditi. Simile ritorsione sarà effettuata per attentati ai componenti le Forze Armate e di Polizia Italiane. Qualora dovessero verificarsi attentati più gravi e i responsabili non fossero tempestivamente denunciati dalla popolazione, i provvedimenti potranno assumere proporzioni tali da punire l'intero paese ove i fatti fossero avvenuti».

I fucilati di Baveno sono stati sepolti in una fossa comune.


48



ASSASSINIO DI UNO STUDENTE - Novara, 21 giugno 1944

Caduto: Caduto: Giulio Orazio De Simoni

Nonostante gli sforzi compiuti dalla scuola fascista per forgiare i giovani sul modello mussoliniano e per farli «credere, obbedire e combattere» senza muovere alcuna obiezione, la gioventù che cresce nell'epoca fascista, quando arriva il momento giusto, non solo non crede e non ubbidisce agli ordini del Duce, ma offre un grande contributo alla Resistenza combattendo contro i fascisti e i nazisti che Mussolini ha fatto calare dalla Germania di Htler.

Le "Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana" ci danno un'ampia documentazione delle più alte virtù di tanti giovani che, per nulla rassegnati alla soppressione di ogni forma di libertà, hanno, con le loro scelte e con il loro sacrificio, offerto alle nuove generazioni un nobilissimo esempio.

Giulio Orazio De Simoni è un diciannovenne studente universitario milanese e già da alcuni mesi milita nelle file dei gappisti di Milano. In primavera, il giovane universitario milanese riesce a prendere contatto con i partigiani garibaldini della provincia di Novara e, volendo unirsi a loro, il 21 giugno parte da Milano per fare tappa a Novara e di lì ripartire per raggiungere le montagne dell' Alto Novarese.

Un'imprudenza lo porta a percorrere i portici di Corso Vittorio Emanuele alle 22 dello stesso giorno del suo arrivo a Novara; bloccato da quattro militi della GNR viene trascinato e spinto, a calci e a pugni, fino alla Casa Littoria. Bastonato nel corso dell'interrogatorio il De Simoni non dà alcuna indicazione circa la propria attività clandestina.

Constatata l'inutilità di proseguire l'interrogatorio, i fascisti lo trascinano, già più morto che vivo, fuori dalla Casa del Littorio e lo fanno salire a bordo di una vettura della polizia. La macchina riparte verso il centro città, poi si dirige verso la periferia, percorrendo viale Dante, il cavalcavia Sempione, corso della Vittoria. Nei pressi di Veveri, la macchina si ferma e De Simoni viene costretto a scendere per proseguire a piedi. Dopo alcuni passi il giovane universitario viene raggiunto e abbattuto da numerosi colpi di rivoltella, poi la macchina riparte verso il centro città.

E' circa mezzanotte quando la Guardia di P.S. Comoli, che rientra a Novara, si avvede del corpo steso in mezzo alla strada in una pozza di sangue; la guardia Comoli avverte immediatamente la C.R.I. che provveda al trasporto del De Simoni in guardia medica all'Ospedale Maggiore di Novara. E' in servizio il dottor Annovazzi che riscontra «gravi ferite multiple all'emitorace destro con forte anemia per dissanguamento».

Negli ultimi momenti di vita, Giulio Orazio De Simoni riesce a dare le proprie generalità, l'indirizzo della famiglia, così come riesce a raccontare come si sono svolti i fatti dal momento dell'arresto..


48



UNITI NELLA LOTTA E NELLA MORTE

Alpe Razzoli, 20 giugno 1944

Caduto: Bruno Vigorelli

Alpe Casarolo, 22 giugno 1944

Caduti: Gelindo Alimi, Enrico Andreolotti, Giovanni Andreolotti, Enrico Fovanna, Abele Iseni, Carlo Dettagliati, Marino Soldà, Adolfo Vigorelli

Bruno di 24 anni e "Fofi" di 23 anni sono i figli di un noto avvocato lombardo, Ezio Vigorelli, socialista e da sempre antifascista. Nel 1943 Ezio Vigorelli, ricercato dalla polizia fascista, si rifugia, con la famiglia, in Svizzera.

Bruno e "Fofi" sono, quindi, al sicuro a Lugano dove possono rimanere senza correre alcun rischio. Un giorno di giugno arriva nella cittadina del Canton Ticino, in cerca di aiuto per i suoi partigiani, il comandante delle formazioni "Valdossola", Dionigi Superti; quando sta per riprendere il cammino per il rientro in Italia, i due giovani gli si aggregano e, dopo due giorni di marcia, nella notte fra il 13 e il 14 giugno, i tre raggiungono Pogallo. Il giorno 15 Superti riprende la marcia con una settantina di uomini della formazione "Valdossola" e i due fratelli Vigorelli sono anche loro della partita. Si va verso la Bocchetta di Campo, a oltre duemila metri, per arrivare in Val Grande.

E' in corso il terribile rastrellamento che investe il Verbano, la Cannobina e la sponda occidentale dell'Ossola; è scesa una fitta, umida nebbia che tutto avvolge; ciò può essere tanto provvidenziale quanto pericoloso , perché nasconde alla vista del nemico, ma può anche improvvisamente alzarsi e fare trovare il nemico a pochi passi. A tarda sera il reparto partigiano raggiunge la Bocchetta di Campo dove fa sosta per la notte; non più di una ventina riescono a rifugiarsi in una baita, gli altri dormono all'aperto. Il giorno seguente si riprende il cammino in direzione dell'Alpe Portatola e, poi, in giù, verso l'Arca, a 790 metri di altitudine.

Ma, prima di incamminarsi per l'ultima tappa, Superti manda in ricognizione due uomini; uno di essi ritorna dopo circa un'ora per informare il Comandante che un reparto tedesco ha fatto sosta nelle baite de l'Arca e ora si avvia verso Orfalecchio, sul rio Valgrande, ove vi è il magazzino di viveri della "Valdossola".

Il reparto partigiano riprende, cauto, il cammino e raggiunge l'Arca a notte alta; l'indomani mattina partono in ricognizione alcune pattuglie. Una delle pattuglie viene individuata dai tedeschi. Il gruppo di Superti viene attaccato, reagisce con efficace contrattacco condotto da una quindicina di uomini mentre il grosso riesce a sganciarsi e portarsi nel canalone che divide la vallata e che sale verso cima Lazzaretto e cima Peduna. E' già notte quando l'intero gruppo guidato da Superti raggiunge le prime falde del nevaio a un'altitudine di circa 1800 metri.

Nei giorni 18 e 19 il Gruppo Superti rimane fermo; gli uomini sono estenuati per la lunga arrampicata dei giorni precedenti, per la fame e il freddo. Il 20 mattina riprende la marcia in una zona assolutamente priva di mulattiere, di sentieri e immersa nella nebbia. Nei pressi dell'Alpe Portatola avviene ciò che si paventava da giorni, la nebbia si squarcia, cosicché partigiani e tedeschi si trovano di fronte a poco più di un centinaio di metri gli uni dagli altri.

Non vi è alcuna possibilità di evitare lo scontro frontale. Il numero dei tedeschi è tre o quattro volte superiore a quello dei partigiani; non solo, i tedeschi hanno l'appoggio di alcuni pezzi di artiglieria. I partigiani non si arrendono, si battono con grande coraggio fino alla morte. Molti partigiani perdono la vita e i tedeschi riconoscono il valore dei giovani combattenti della divisione "Valdossola". Il Comandante ordina ai suoi soldati di presentare le armi, per rendere onore ad un gruppo di veri, leali combattenti.

Intanto i fratelli Vigorelli, Mario Moranti e i loro uomini riescono a sfuggire all'accerchiamento e a portarsi verso l'alpe Razzoli; nel corso della durissima marcia, uno dei Vigorelli, Bruno , già ferito, precipita in un canalone e muore nella caduta, rotolando da un masso all'altro. E' cominciato a piovere ma il gruppetto prosegue finchè, a notte inoltrata, raggiunge l'Alpe Casarolo. Nella baita vi sono i caprai Enrico e Giovanni Andreolotti che stanno facendo polenta e vi è pure latte e formaggio; vi è finalmente qualcosa per smorzare gli stimoli della fame.

Stremati, gli uomini della "Valdossola" pensano di aver trovato un angolo di pace, ma non è così. I tedeschi hanno ormai invaso la valle, mentre alcuni partigiani si allontanano dalla baita degli Andreolotti per ricercare il sentiero che dovranno percorrere per raggiungere un'altra località; i tedeschi raggiungono la baita dal cui camino esce il fumo e si presentano sulla soglia con i mitra spianati. Pronta è la reazione dei partigiani ma l'uno dopo l'altro cadono i sei ragazzi della "Valdossola" e i due caprai di Colloro. Sale alto il fumo bigio, acre dalla baita che agonizza fra le fiamme.


48



STRAPPATE LE UNGHIE DELLE MANI E DEI PIEDI - Malesco-Finero, 23 giugno 1944 (3)

Caduti: Mario Crescini Aloisi, Fiorentino Gallarati, Bruno Gerosa, Sebastiano Lauteri, Giorgio Longoni, Mario Martinelli, Olinto Pasetti, Serafino Paternoster, Pietro Pezzetti, Gaetano Ricci, Luciano Turati, Ugo Canotti, Giuseppe Ziliani e due Ignoti.

Nazisti e fascisti continuano a rastrellare, torturare, distruggere e fucilare. L'elenco delle località che portano il segno delle orde barbariche sembra non avere più fine: Alpe Piana, Alpe Casarolo, Beura, Alpe Striglia, Falmenta, Cicogna, Pizzo Marona, Colle S.Bernardino Verbano, Colloro vanno ad aggiungersi a quelle già in precedenza colpite.

Il partigiano Giuseppe Zappa, il "sopravvissuto di Malesco", racconta quanto avviene in questo terribile mese di giugno, a Malesco e a Finero, due piccoli paesi a cavallo fra la Valle Vigezzo e la Valle Cannobina. All'alba del 22 giugno, quattro partigiani, fra cui lo Zappa, vengono catturati in una baita di Pogallo; vengono presi a calci e a pugni e, caricati di cassette di munizioni, trascinati e spinti lungo i sentieri della montagna fino a Malesco.

«Senza mai farci toccare cibo e acqua. A Malesco veniamo rinchiusi nell'Asilo, nella cella della morte, nella cella languono altri dodici partigiani, disfatti dalle torture. Io sono paralizzato dal terrore. Un tedesco mi chiede, indicando i miei compagni di cella: «Li conosci? Se li conosci dì i loro nomi ed avrai salva la vita. Se taci, il plotone ti aspetta».

Resto muto per un momento, poi, con uno sforzo, mormoro: «Non li conosco». Il tedesco allora urla: «Vigliacco, menti» e mi colpisce sulla testa con il calcio del suo Mauser. Cado privo di sensi..
».

Zappa, ripresosi, riconosce alcuni compaesani fra i compagni di cella, ma tanta è la stanchezza in tutti che non riescono a proferire parola.

Zappa continua: «La sera cominciano le torture: mi vengono strappate le unghie delle mani e dei piedi e mi viene bruciato il braccio sinistro dopo tre ore di torture senza avermi cavato nulla dalla bocca, vengo gettato nuovamente nella cella più morto che vivo».

E' il 23 giugno.

«Alle due pomeridiane» ricorda Zappa «mi portano nel cortile dell'asilo. Una donna riesce ad avvicinarmi e mi dà un pezzo di pane, ma un fascista se ne accorge e me lo strappa di mano».

I prigionieri vengono caricati su un camion e trasportati sul piazzale antistante il cimitero di Finero. E' l'infermiera partigiana Maria Peron che continua il racconto: «Una scena orribile e selvaggia mi sconvolge: un gruppo di soldati tedeschi ha addossato al muro esterno del cimitero di Finero alcuni partigiani; con una prima scarica li colpiscono alle gambe e, con una seconda, alla testa. Quelli che ancora si muovono vengono finiti con un colpo di pistola al capo».

Eppure uno dei "fucilati" sfugge alla morte. Non appena i nazifascisti si allontanano, un sacerdote e una donna si avvicinano al "mucchio", s'inginocchiano e, mentre pregano, sentono dei lamenti. E' una ricerca affannosa fra i cadaveri e dal "mucchio" viene estratto Giuseppe Zappa risparmiato dal colpo di grazia.

Il partigiano Zappa viene trasportato in un vicino cascinale e amorevolmente curato, ma la sua avventura non è ancora chiusa. Giuseppe Zappa viene nuovamente catturato, trasportato a Torino rinchiuso alle "Nuove" e, infine, trasferito nel campo di concentramento di Innsbruck. Zappa fugge dal campo di concentramento e rientra in Italia per raggiungere ancora una volta i suoi monti e riprendere la lotta fino alla Liberazione .

(3) Il racconto dello Zappa è stato pubblicato su "La Stella Alpina" del 19 maggio 1946 con il titolo "Il sopravvissuto di Malesco racconta" e la testimonianza di Maria Peron è tratta dal libro "Val Grande partigiana e dintorni: 4 storie di protagonisti" di Nino Chiovini, editore Libreria Margaroli.


48



ALLA "CAMINADINA" - Oleggio-Bellinzago, 23 giugno 1944

Caduti: Paolo Alleva, Rinaldo Bertolotti, Triestino Pagani, Achille Porta.

Nel convegno dei comandanti garibaldini, tenuto negli ultimi giorni di maggio, a Valduggia, viene presa la decisione «di spingere le formazioni ad operare più in basso per portare la guerriglia in pianura».

I Comandanti "Nello", "Andrei" e "Pesgu" si assumono il compito di inviare alcuni loro reparti ad attaccare un grosso centro dell'Organizzazione Todt ad Oleggio e un forte presidio nemico alloggiato nei capannoni della Fiat presso Bellinzago. L'azione si effettua il 23 giugno. L'attacco al deposito di Oleggio ha un inizio felice; vengono distrutti macchinari e materiale non trasferibile, caricati sull'autocarro armi e munizioni, prelevati, quali ostaggi, un ufficiale superiore e un sottufficiale tedeschi.

L'autocarro parte subito in direzione Bellinzago, ma è costretto a fermarsi al passaggio a livello perché chiuso. Sopraggiunge il treno carico di soldati tedeschi che, accortisi dei partigiani, danno inizio alla sparatoria, sparatoria che diviene «infernale, caotica» quando a dare man forte a quelli del treno arrivano tedeschi e fascisti del presidio di Oleggio che passano al contrattacco. I partigiani si buttano «nei fossi laterali della strada e soltanto la perizia e il coraggio dell'autista può salvarli».

«L'autista, infatti, riesce a compiere la difficile manovra di girare l'automezzo sotto il fuoco nemico e ritornare verso Oleggio raccogliendo lungo la strada i partigiani..».

Forti le perdite del nemico; i partigiani perdono quattro uomini: Paolo Alleva, nato nell'ottobre del 1920 a Fontaneto d'Agogna; Rinaldo Bertolotti, nato nell'aprile del 1924 a Valpuiseaux (Francia); Achille Porta 'Romeo', nato a S. Maurizio d'Opaglio nel 1922, che vengono recuperati dai partigiani e portati a Borgosesia. Cade anche Triestino Pagani, nato nell'ottobre del 1918 a Fontaneto d'Agogna, trovato in un campo dai tedeschi. Dalla carta d'identità del partigiano Pagani, i nazisti vengono a sapere che è di Fontaneto d'Agogna, i nazisti prelevano venticinque ostaggi ivi compresi il padre e la sorella di Triestino.

Il podestà e il parroco di Fontaneto, con il padre del caduto, vengono inviati al comando garibaldino di Borgosesia, in missione: il loro compito è quello di indurre il comandante partigiano a restituire l'Ufficiale superiore e il sottufficiale nazista catturati nel corso dell'azione di Oleggio, ben precisando che, in caso contrario, gli ostaggi verranno fucilati e Fontaneto d'Agogna sarà dato alle fiamme. Il Comandante partigiano non si fa intimorire dalle minacce naziste e, avendo prigionieri numerosi ufficiali nazisti catturati nel corso di precedenti azioni, risponde che qualora il Comando nazista avesse attuato il piano criminoso, sarebbero stati passati immediatamente per le armi tutti i nazisti prigionieri. La controproposta che viene accettata dal Comando nazista è la seguente: scambio, a Borgosesia, dei due prigionieri dell'azione del 23 giugno con 23 partigiani chiusi nel carcere di Novara e rilascio di tutti gli ostaggi.

Lo scambio avviene a Borgosesia, nella piazza, dinanzi alla popolazione. Nel contempo, ricorda il farmacista dottor Pio Cerutti di Oleggio: «Dopo quel furibondo attacco, i tedeschi furentissimi, al comando del capitano Blum, guidati dal Segretario Politico repubblichino (il medico Giovacchino Petru, nativo della Corsica, rifugiato ad Oleggio) per rappresaglia arrestano il Segretario Comunale (Miglio) e un farmacista (Cerutti). I due vengono rinchiusi in una oscura e stretta cella, arredata da un lurido tavolaccio e da un maleodorante bugliolo. Minacce di morte! Vengono poi consegnati alla Autorità repubblichina accorsa da Novara. Messi sotto giudizio da una piccola congrega presieduta dal vice federale di Novara. Andrea Fortunato (Pubblico Ministero nel processo di Verona del febbraio 1944), per l'intervento dell'Autorità religiosa, di alcuni maggiorenti e, inoltre, per lo scambio di ostaggi, vengono messi in libertà, a disposizione».


48



FUCILAZIONE A PONTE CASLETTO - Ponte Casletto, 24 giugno 1944

Caduti: Luigi Abbiati, Angelo Cristina.

Continua spietata la caccia all'uomo. I partigiani, braccati, affamati, abbattuti dalla stanchezza e dallo sconforto per non essere in grado di tenere testa a un nemico troppo superiore nel numero degli uomini, dotato delle armi più moderne automatiche, leggere e pesanti e di mezzi corazzati, appoggiato dell'intervento di aerei da caccia, aiutato da cani addestrati alla ricerca dei ribelli, si muovono in continuazione, spostandosi dall'una all'altra valle del Verbano e della Bassa Ossola alla ricerca di un rifugio, di viveri, di momenti di tregua. I nazifascisti hanno cambi regolari, i reparti si alternano alla caccia dei ribelli e inoltre diciassettemila uomini (tanti sono impegnati nel rastrellamento del giugno '44) possono investire le posizioni partigiane nelle diverse valli.

I partigiani delle formazioni "Valdossola", "Giovine Italia", "C. Battisti" e "G. Perotti" non si danno per vinti; nonostante le perdite, la stanchezza e la fame, i partigiani resistono.

La zona di Rovegro, Ungiasca, Ponte Casletto è sempre "calda". I partigiani Luigi Abbiati e Angelo Cristina, in pattuglia, si trovano isolati dal loro reparto proprio in questa zona, nel corso del rastrellamento; cadono nella rete del nemico e pur constatando di essere circondati, respingono l'ordine di resa e oppongono al nemico accanita resistenza; vengono catturati allorché rimangono senza munizioni. Quando i partigiani vengono catturati con le armi in pugno, i nazisti usano la procedura d'urgenza ed è condanna a morte.

L'anziano Luigi Abbiati nato a Brescia nel 1897 ( antifascista, comunista, già condannato al carcere fascista a 6 anni e al confino 14 anni per attività clandestina), dinanzi al plotone d'esecuzione, urla al nemico il proprio disprezzo. Poi i due coraggiosi partigiani, guardando fieramente i loro assassini, offrono «il petto al piombo nemico».


48



I NOVE FUCILATI DI BEURA - Beura Cardezza, 27 giugno 1944

Caduti: Guerrino Aini, Cesare Badella, Teresa Binda, Francesco Femminis, Pierino Lamperti, Luigi Macchi, Otello Mapelli, Bruno Paperini, Carlo Sacchi.

Fra i tanti giovani che scelgono la strada della lotta, troviamo anche Gianni Soffaglio, diciottenne, di Suna di Verbania. Gianni lascia la casa e la mamma e sale sui suoi monti per unirsi a tanti altri giovani, per combattere oppressori e invasori. Sono i giorni del terribile rastrellamento nazifascista; la mamma di Gianni, Teresa Binda, quarantenne, sa che il figlio si trova in grande pericolo, nella zona di Rovegro-Ponte Casletto; perseguitata dal dubbio e dall'ansia, non sopporta di rimanere nella casa ormai vuota, senza figlio. (4)

Mamma Teresa corre a cercare il figlio, non vuole fargli abbandonare la lotta, ma vuole stargli vicino, seguirlo, soffrire con lui, lo trova e nonostante Gianni cerchi di convincerla a ritornare a casa, mamma Teresa non se ne dà per inteso e riesce a persuadere sia il figlio che i suoi compagni, che la sua presenza non sarà di peso. La vita del partigiano è sempre dura ed è durissima quando si è braccati in continuazione, quando anche la stanchezza e la fame, oltre che il nemico, ricorrono appresso. Per mamma Teresa questa vita così dura, queste corse per i sentieri in mezzo ai boschi, questo arrampicarsi lungo i canaloni, fra le rocce, su verso le cime sempre più alte, senza soste se non quelle per ricacciare indietro il nemico, non possono durare a lungo; sofferente, distrutta dalle fatiche, è costretta a rinunciare al suo proposito e deve ritornare alla sua casa.

Ricomincia la tortura dell'ansia, ma dura poco. Dopo alcuni giorni la casa di mamma Teresa viene invasa dai briganti neri; i fascisti vogliono che la donna dica dove è suo figlio, dove è il reparto di Gianni, chi è il comandante. Mamma Teresa non parla, viene picchiata ma non parla, viene portata a Verbania e rinchiusa nelle carceri, non parla. Il 27 giugno, proprio dalle carceri di Verbania, parte un autocarro carico di condannati a morte.

Tra i condannati vi è mamma Teresa; vi sono il carabiniere-partigiano Cesare Badella, artigiano, l'operaio ventenne Otello Mapelli che, pur claudicante, è un coraggioso gappista di Intra, arrestato per la spiata di un fascista fatto prigioniero e lasciato libero dai partigiani; vi sono ancora Guerrino Aini, Francesco Femminis, Pierino Lamperti, Luigi Macchi, Bruno Passerini e Carlo Sacchi catturati durante il rastrellamento iniziatosi nella prima decade di giugno. L'autocarro con il carico dei condannati circondati dai militi e nazisti, è seguito da un secondo autocarro carico di nazisti. I due autocarri corrono sulla strada del Sempione e si fermano ai margini di un prato, fra Beura e Cosasca. Scendono prima i nazisti del secondo autocarro, quindi vengono fatti scendere i condannati seguiti dagli sgherri del primo autocarro. Le vittime portano sul volto i segni della violenza. Mamma Teresa e otto ragazzi coraggiosi, a cui le torture non hanno aperto bocca, sono ora l'uno all'altro accanto, dinanzi ai loro boia.

Il plotone d'esecuzione, un ordine secco, il lugubre canto del mitra.

Don Luigi Pellanda, venuto a conoscenza di quanto è accaduto, si porta, in bicicletta, sul luogo dell'eccidio e ricorda: «mi avvicino trepidante, tutto esala il dramma doloroso; l'erba calpestata, grumi di sangue, manate di cervella e mosche avide e inconsce». (5)
.

Le vittime sono già allineate nella cappella del Cimitero di Beura: «sotto le braccia di un'altra vittima: il Crocifisso. La buona gente non ha potuto fissare quei volti pallidi, quelle bocche aperte, quegli occhi enormemente sbarrati e fissi e li ha tutti coperti con brancate di erba fresca. Li guarda ad uno ad uno, sono tutti vestiti male e quasi scalzi, privi di documenti: ricordo una donna piccolina con scarpette di stoffa, un giovane con capelli rossicci, fini e ancora irti».

Hanno pagato il prezzo per la loro fede, per il loro coraggio e il loro silenzio.

(4) la storia di Gianni Soffaglio e di Teresa Binda viene raccontata da N. Chiovini in "Verbano, giugno '44", 1966.

(5) da "L'Ossola nella tempesta" di don Luigi Pellanda, Tip. Provera, Novara 1954.


48



"SERRATI FRA DUE PANCHE" - Strona, 27 giugno 1944

Caduti: Egidio Baldioli, Guido Camussi, Luca Ceresa, Romolo Colli, Giuseppe Fortis, Giuseppe Nichini.

Massiola, piccolo paese nella valle Strona, dove i fratelli Alfredo e Antonio Di Dio, inizialmente conosciute come i "fratelli Diala", hanno dato vita, nel settembre del '43, ad una delle prime bande partigiane, è sempre un nido di partigiani e, nel giugno del '44, vi ha un suo punto d'appoggio il "Gruppo Patrioti Ossola".

Nella "Mariola bela", in questi ultimi giorni di giugno, è in sosta il distaccamento comandato da Beniamino Carnelli, ten. "Mimmo"; nei pressi del paese è accampato anche un altro distaccamento del "Gruppo Patrioti Ossola", il distaccamento comandato dal cap. Guido Camussi.

I due distaccamenti sono in attesa di un aviolancio destinato alla formazione di Alfredo Di Dio "Marco". Sia per i fuochi di segnalazione sia, soprattutto, per il recupero del materiale (armi, munizioni, equipaggiamento ecc.) aviolanciato occorre, infatti l'impiego di parecchi uomini.

Il 24 giugno i comandanti dei due distaccamenti vengono informati che a giorni, verrà effettuato il lancio; al ten. "Mimmo" viene assegnata la zona dell'Alpe Pero e al cap. Camussi la zona della Damasca, sopra le due Quarne.

Il 25 giugno i nazifascisti danno il via a un nuovo rastrellamento puntando su tre direttrici: la prima su Cesara e, quindi, la Colma di Civiasco; la seconda sulle Quarne per proseguire verso la Damasca; la terza colonna nazifascista si inoltra nella Valle Strona. La radio ricetrasmittente del Mottarone comunica agli Alleati di rinviare di alcuni giorni l'aviolancio, onde evitare che i bidoni contenenti il materiale cadano nelle mani del nemico.

Tramite staffette, i comandanti dei due distaccamenti vengono avvertiti tempestivamente di quanto sta avvenendo e ricevono l'ordine di mantenersi in Valle Strona, ma di raggiungere gli alpeggi da cui si può sconfinare nella Valle del Massone.

Il Cap. Camussi, che già si è portato nella zona del lancio, rendendosi conto del pericolo che incombe e per evitare attacchi di sorpresa al grosso del reparto, costituisce un nucleo di avanguardia di cui si mette alla testa.

In effetti la previdente operazione del cap. Camussi salva il grosso dall'imboscata, ma fa cadere nella rete del nemico i sei della pattuglia d'avanguardia. Ricorda il ten. "Mimmo" che i sei partigiani «dopo i rituali, terrificanti episodi di violenza, caricati su una camionetta, legati, serrati fra due panche di legno, vengono portati ad Omegna ed esposti perché la popolazione conosca i banditi».

La condanna alla gogna non è sufficiente, deve seguire la condanna a morte!

I sei partigiani vengono ricaricati sulla camionetta, preceduta e seguita da altri automezzi carichi di militi e di nazisti, e ritrasferiti in Valle Strona; la colonna si ferma nel capoluogo della Valle.

La popolazione di Strona viene costretta a portarsi nella piazzetta centrale per assistere all'eccidio. Raffiche di mitra stroncano le vite del comandante Guido Camussi e dei coraggiosi componenti la pattuglia partigiana: Egidio Baldioli, Luca Ceresa, Romolo Colli, Giuseppe Fortis e Giuseppe Nichini.


48



CACCIA SPIETATA - Cresti di Montescheno, 27 giugno 1944

Caduto: Egidio Baccaglio

Da quando è scaduto l'ultimatum del 25 maggio, ultimatum «ai ribelli, disertori e renitenti..» che, per i fascisti, non ha sortito buon esito, sembra che il desiderio sia diventato, per gli oppressori, ansia di vendetta, sfogo della rabbia per i continui insuccessi alle ripetute chiamate alle armi. Già il 26 maggio, con parole roboanti, le minacce di morte si rinnovano nei manifesti fascisti. «Alla forza verrà contrapposta la forza. Il pugno di ferro serrerà le sue dita. Tutti quei ribelli che continuano la lotta contro la loro patria non hanno da aspettarsi che la morte».

I fascisti che scorrazzano nel Verbano scrivono sui muri: «Leoni della montagna se non avete paura vi aspettiamo a Fondotoce», dove i repubblichini sono rinchiusi nell'asilo trasformato in bunker. La risposta dei partigiani del cap. "Mario" è immediata. Nella notte del 29 maggio una pattuglia partigiana scende a Fondotoce, supera il primo anello di difesa del bunker e, con una carica di dinamite, fa saltare una parete del fortino. I repubblichini si fanno catturare e ben quarantaquattro sono i prigionieri sono portati in montagna.

Il 27 giugno mentre i garibaldini del Battaglionne Fabbri, agli ordini di Ugo Scrittori "Mirko", riescono a sottrarsi all'accerchiamento e si apprestano a contrattaccare, al Pianin viene catturato il garibaldino Egidio Baccaglio, ventenne. Il giovane partigiano viene trascinato a Cresti di Montescheno e fucilato.


48



CIVILI ASSASSINATI

Calanca Castiglione, 27 giugno 1944

Caduta: Candida Medar

Frazione Molini, 1º luglio 1944

Caduto: Piero Zanetti

Sulle montagne è rimasta ormai poca neve e solo sulle cime più alte; i pastori sono negli alpeggi o al pascolo perché, anche se c'è la guerra, questa è la loro vita e non possono disertare i prati, abbandonare le mucche e le pecore, così come non si può non tagliare l'erba, raccogliere il fieno, sono le risorse di cui si vive nelle Valli dell'Ossola, nei piccoli paesi disseminati in Valle Anzasca, in Valle Introna e nelle altre valli che affluiscono verso la larga valle del Toce. I pastori sono fra i più validi alleati dei partigiani; dalle rocce, da cui vigilano il bestiame al pascolo, scrutano ogni scorciatoia e, comunque, ogni via breve che unisce i diversi luoghi della zona; quando individuano colonne nemiche che si inoltrano nelle valli, danno l'allarme ai gruppi partigiani accampati nei dintorni e agli abitanti dei paesi più vicini.

Proprio le Valli Anzasca e Introna sanno quanto vale la vigilanza dei pastori e di centinaia di valligiani, uomini e donne di ogni età che, per lunghi mesi, sono soggette alle scorribande di barbari feroci e assassini. Calanca Castiglione, uno dei paesi che si incontrano salendo verso Macugnaga, in Valle Anzasca, un paese in cui l'agricoltura e la pastorizia prevalgono ancora su altre occupazioni, è certamente un paese che più di altri è vittima delle continue aggressioni nazifasciste.

E le aggressioni lasciano sempre il segno: saccheggi, distruzioni, morti. Il 27 giugno del '44 vi è un ennesimo passaggio di nazisti. Una coraggiosa valligiana, Candida Medar, affronta il comandante del reparto nazista protestando per gli ingiustificati saccheggi a cui è sottoposto il paese: viene assassinata.

Il 1º luglio, nel corso di uno dei soliti rastrellamenti, viene trovato nell'ambulatorio del medico locale Pietro Zanetti, colpevole solo di essere andato nello studio medico per farsi visitare: lo Zanetti viene prelevato, bastonato, trascinato in frazione Molini e fucilato.


48




   CHI SIAMO




   LA COSTITUZIONE della
   REPUBBLICA ITALIANA