|
Comitato provinciale di Novara
|
La lotta partigiana nel Novarese (attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)
Alcune date significative del mese di giugno 1944
- "DOM", L'EROICO ALPINO - Oira, 3 giugno 1944
- CORPUS DOMINI DEL 1944 - Premosello, 8 giugno 1944
- ASSASSINIO ALLA S.I.A.I. - Borgomanero, 10 giugno 1944
- "105.099" - Dortmund, 13 giugno 1944
- FUCILAZIONE ALLA CAPPELLA DI S. BERNARDO - Punta di Migiandone-Ornavasso, 14 giugno 1944
- ASSASSINIO ALLA FONTE - Alpe Fornà, 16 giugno 1944
- ALLA BASE DEI ROCCIONI - Pizzo Marona, 17 giugno 1944
- COSTRETTI A SCAVARSI LA FOSSA
- - Rovegro, 12 giugno 1944
- - Aurano, 17 Giugno 1944
- - Ponte Casletto, 17 giugno 1944
- - Falmenta, 18 giugno 1944
- - Pogallo, 18 giugno 1944
- MARCIA VERSO LA MORTE - Fondotoce, 20 giugno 1944
- UN GENEROSO COMANDANTE PARTIGIANO - Loita di Baveno, 20 giugno 1944
- TRA LE AIUOLE FIORITE - Baveno, 21 giugno 1944
- ASSASSINIO DI UNO STUDENTE - Novara, 21 giugno 1944
- UNITI NELLA LOTTA E NELLA MORTE
- - Alpe Razzoli, 20 giugno 1944
- - Alpe Casarolo, 22 giugno 1944
- STRAPPATE LE UNGHIE DELLE MANI E DEI PIEDI - Malesco-Finero, 23 giugno 1944
- ALLA "CAMINADINA" - Oleggio-Bellinzago, 23 giugno 1944
- FUCILAZIONE A PONTE CASLETTO - Ponte Casletto, 24 giugno 1944
- I NOVE FUCILATI DI BEURA - Beura Cardezza, 27 giugno 1944
- "SERRATI FRA DUE PANCHE" - Strona, 27 giugno 1944
- CACCIA SPIETATA - Cresti di Montescheno, 27 giugno 1944
- CIVILI ASSASSINATI
- - Calanca Castiglione, 27 giugno 1944
- - Frazione Molini, 1º luglio 1944.
"DOM", L'EROICO ALPINO - Oira, 3 giugno 1944
Caduti: Silvestro Curotti, Battista Bazzetta
Silvestro Curotti nasce, nel 1920, in frazione Cortina
di Domodossola, ed è figlio di un carrettiere; frequenta le scuole
elementari, poi va ad imparare il mestiere di imbianchino. Nel 1940 è
chiamato alle armi. Grande e grosso com'è, viene assegnato a un
reggimento di artiglieria da montagna e, con il grado di caporale
maggiore, entra a far parte del 20º sciatori.
L'otto settembre del 1943 sorprende il giovane
Cerotti in Francia, ad Annecy, ma il caporale maggiore ossolano non trova
alcuna difficoltà a rientrare in Italia; il 10 settembre, dopo lunga
marcia attraversa la Valle d'Aosta, raggiunge la sua Domodossola.
Cerotti si unisce subito ai giovani che danno vita alla
"Banda Libertà"; lo troviamo a Cà dei Conti e a Caddo con Boghi,
Bollati, Riccomagno, Verdura ecc.; lo ritroviamo davanti al caffè
Universo a sottrarre un bel mitragliatore da una camionetta della GdF e,
ancora, con il nucleo partigiano che a Monteossolano si libera di due SS.
Il nemico gli dà la caccia in zona e Curotti si
arruola, verso la fine del febbraio '44, nel gruppo "Beltrami"
che, dopo la morte del Capitano, sta ricostituendo al comando di Bruno
Rutto.
Curotti è ormai, dai suoi compagni, chiamato "Dom";
è fra i protagonisti nelle azioni di Ornavasso, Omega, Cesio, Strona, in
quella di recupero del materiale lasciato nella zona compresa tra l'alpe
Togalla e il Mazzucone. Una delle località in cui la "Volante" (dove
"Dom" è stato inserito per il suo coraggio) sosta sovente è Oira, già
frazione di Cesara.
La "Volante" di Nino Cristina, di Pierino Lauti, di
"Butunin", di "Dom", di Curti, di Guarnori, di
Martinoli, di Smaniotti a Oira si riposa e si prepara a nuove azioni; da
lì parte, più volte, per raggiungere il lago e trasferirsi con la barca
di Serafino Boschetti a Pettenasco, da cui si prende il via per nuove
imprese.
Il 3 giugno, verso sera, un centinaio di politzei
provenienti da Omegna, raggiungevano Oira. Cristina e i suoi compagni,
ritenendo che non sia imminente il pericolo di un attacco nazifascista,
trascorrono il pomeriggio festivo nei locali del dopolavoro a giocare alle
carte o sul campo di bocce; vi è invece chi, come "Dom", si ferma a casa di
amici. "Dom" si trova in casa di Mario Ciocca, che è anche proprietario
dell'edificio in cui vi è il dopolavoro al piano terreno. Si fa sera
quando qualcuno dà l'allarme: «i tedeschi!»! Sorpresi dall'inaspettata
visita, i tre ragazzi riescono a consigliarsi e "Dom" si assume l'incarico
di proteggere la ritirata degli altri che hanno il compito di portare al
sicuro il materiale in consegna. Lauti riesce nell'intento mentre
Bertone, ferito in una precedente azione, viene fatto prigioniero.
"Dom" mantiene l'impegno e rientrato nei locali del
Circolo da inizio alla sparatoria contro il nemico.
Uno contro cento, per quattro ore. Nel locale si trova
pure un civile. Dopo due ore di combattimento "Dom", che ha già rifiutato
la resa, chiede al nemico, distante non più di 20 passi, di sospendere il
fuoco per lasciare uscire il civile.
Sono le 22.30 e continua a piovere. Uno degli ostaggi,
Battista Bazzetta, ritiene che sia il momento di tentare la fuga: il buio,
la pioggia, l'attenzione dei nazisti rivolta a "Dom" sembrano giustificare
il tentativo, si butta di corsa verso il bosco ma alcune raffiche di mitra
lo abbattono. Intanto la sparatoria non ha tregua, passano le ore; vi è
ancora un ordine al Ciocca e al Giorla di rientrare nell'edificio per
convincere "Dom" ad arrendersi, ma anche questa volta i due ritornano con
risultato negativo
A mezzanotte il capitano Simon vuole farla finita;
ordina di buttare benzina nel fienile e di dare fuoco; poi, tramite il
Ciocca e il Giorla, tenta, per la terza volta, di convincere "Dom" ad
uscire.
"Dom" ha mantenuto la promessa con l'ultimo colpo
della sua pistola si è data la morte
Il Comandante Simon concede al partigiano "Dom" l'onore
delle armi.
CORPUS DOMINI DEL 1944 - Premosello, 8 giugno 1944
Caduto: Bruno Ballabio
Premosello e Colloro, due paesi della bassa Ossola, l'uno
al piano e l'altro adagiato sul pianoro sovrastante, a mezza montagna,
hanno dato un notevole contributo nella lotta contro il nazismo e il
fascismo, in favore e aiuto delle formazioni partigiane.
Premosello e Colloro divengono, ben presto, un punto di
appoggio dei partigiani. La gente è con i partigiani. E' evidente che
il nemico nazifascista più volte e con ferocia si accanisce non solo
contro i partigiani ma contro la popolazione, le sue case, le sue baite.
Giugno 1944: nella prima decade ha inizio il terribile
rastrellamento che dura oltre venti giorni e che si abbatte sul Verbano e
sulla Bassa Ossola. Reparti della formazione "Valdossola", che
riescono a sottrarsi alla morsa che i nazifascisti vanno stringendo nel
Verbano, si portano sulle alture di Premosello, a Colloro, alla
Colma, all'alpe Casarolo, all'alpe Serena ove, certamente, non manca l'aiuto
dei valligiani ed ove trovano un temporaneo luogo di rifugio.
Le provviste sono sempre necessarie e si devono fare a
Premosello. L'8 giugno, il giorno del Corpus Domini, sono di corvé i
partigiani Ballabio e Scalabrini; nei pressi del ponte di Premosello si
fermano a parlare con tre persone del luogo quando improvvisamente uno dei
borghesi sussurra concitatamente: «i tedeschi!»! Infatti due
camionette cariche di tedeschi e repubblichini giungono in paese e si
arrestano in piazza. Mentre i borghesi si rifugiano nel vicino albergo, i
due partigiani danno inizio alla sparatoria, cercando, nel contempo, di
raggiungere gli orti nella speranza di defilarsi e, quindi, di spostarsi
nella boscaglia.
Ricorda Scalabrini: «quando Bruno si accorge
che l'accerchiamento sta per completarsi, si rivolge, sotto l'uragano
di fuoco, a me e mi dice: «tengo io, salvati»! Bruno, da solo,
con le scarse munizioni, ma con grande coraggio, tiene testa, per quasi
mezz'ora, ai tedeschi e ai fascisti. Cessa il fuoco, si sentono ancora
per qualche minuto le urla degli assalitori, poi ricade il silenzio nella
grande valle. Quando i nazifascisti se ne vanno, la popolazione va alla
ricerca di Bruno. Eccolo! Numerose sono le ferite al petto, ma ha pure tre
pugnalate nella schiena». (1)
(1) Solo dopo alcuni anni dalla morte si è venuti a
conoscenza delle generalità e del luogo di nascita del giovane caduto,
Bruno Ballabio di Inverigo Bigoncio (CO). Scalabrini, ferito a Premosello,
cade in Valgrande il 20 giugno 1944.
ASSASSINIO ALLA S.I.A.I. - Borgomanero, 10 giugno 1944
Caduto: Ottavio Grossini
"Rapporto" del Comando Provinciale della GNR di Novara, Presidio di Arona
Prot. 224/B Div. 3º Arona, li 10 giugno 1944-XXII
«Ore 8 stamani in Borgomanero (Novara) circa
750 operai dello stabilimento SIAI dopo iniziato il lavoro, in segno di
protesta contro la Direzione, perché questa aveva trasferiti allo
stabilimento di Sesto Calende (Varese) gli impiegati Annichini Carlo e
Ciuffi Gaetano e a causa delle dimissioni presentate, per divergenze con
la suddetta Direzione, dall'impiegato tecnico Franzoni Mario, iniziavano
sciopero bianco, senza ricorrere ad atti di violenza.
Successivamente alle ore 10.30 il Franzoni si recava
allo stabilimento e dopo il colloquio avuto con la commissione di
fabbrica, invitava gli operai a riprendere il lavoro.
Nel frattempo e proprio nel momento in cui gli operai
si accingevano a riprendere il lavoro, giungevano sul posto alcuni
militari tedeschi che, ancor prima di entrare nello stabilimento,
sparavano vari colpi di arma da fuoco in direzione diverse, ferendo ad una
gamba l'operaio Grossini Ottavio, il quale, in seguito ad emorragia,
alle 12 di oggi decedeva all'ospedale di Borgomanero».
"105.099" - Dortmund, 13 giugno 1944
Caduto: Felice Bonfantini
Una famiglia di antifascisti, una famiglia socialista.
Il prof. Giuseppe Bonfantini è Sindaco di Novara prima dell'avvento del
fascismo e presidente dell'amministrazione provinciale di Novara dopo la
Liberazione ha cinque figli: Felice, Mario, Vera, Corrado e Sergio, noti
per la loro attività di opposizione e resistenza al fascismo.
Felice Bonfantini - nato a Novara il 30 marzo 1912 - è
nei ricordi di Piero Fornara (primario di pediatria dell'Ospedale
Maggiore di Novara) «serio, riflessivo anche nella sua infanzia
studiosissimo e di poche parole». Conseguita a Novara la
licenza liceale, frequenta l'Università di Milano e si laurea in
medicina. Assunto dell'ospedale Maggiore di Novara, presta servizio
presso l'ambulatorio di pediatria diretto dal primario prof. Piero
Fornara.
Felice Bonfantini, detto "Cino" da parenti ed
amici, segue il suo maestro nello studio e nell'uso, «tra i
primissimi in Italia, dei preparati per la cura della meningite».
Quando insorge, nel 1935-'36, un'epidemia di meningite
cerebro-spinale, la cura è provvidenziale; con i sulfamidici la malattia
viene guarita in una percentuale vicina al cento per cento.
Felice Bonfantini non è ammesso alla Scuola Militare
di Firenze - scuola militare per i laureati in medicina - perché svolge
attività antifascista. Chiamato alle armi, è assegnato all'Ospedale
Militare di Torino. In quel periodo entrano in Ospedale numerosi soldati
affetti da meningite; «davanti ai gallonati ufficiali medici
torinesi», ricorda Piero Fornara «Cino consegue un vero
trionfo nell'indicare loro come si cura la meningite».
Nel 1941, il sottotenente medico Felice Bonfantini
viene inviato in Grecia con il "63º Gruppo Artiglieria
Contraerea" e non appena giunto a destinazione «preoccupato
dalla fame del popolo greco, si dedica, con entusiasmo, alla cura dei
bambini di quella disgraziata nazione, nonostante l'assoluto e inumano
divieto delle nostre autorità».
Proprio per la sua opera umanitaria nei confronti della
popolazione, viene avvicinato dai patrioti del Movimento (clandestino)
popolare ellenico, movimento sorto in opposizione al governo fascista del
generale Metaxas.
Dopo l'8 settembre 1943, Cino trova rifugio presso
alcune famiglie di patrioti di cui ha curato i figli, ma, nel mese di
dicembre dello stesso anno, viene arrestato e inviato al
Kriegsgefangenerlager (campo di prigionieri di guerra) di Versen, con il
n. 105.099. In seguito Cino viene trasferito allo Stammlager di Durtmund,
in Vestfalia, nell'arbeiters Kommando 1242 ove continua, con grande
coraggio, la sua opera umanitaria a favore dei lavoratori italiani come
lui rinchiusi nel campo di internamento.
A Dortmund, il 13 giugno 1944 si spegne Felice
Bonfantini che fino all'ultimo ha difeso, con le sue fraterne cure, la
vita dei suoi compagni di prigionia. (2)
(2) Il prof. Piero Fornara - primario di pediatria all'Ospedale
Maggiore della Carità di Novara - ha scritto per "Resistenza
Unita" del gennaio 1972 l'articolo «Un medico e soldato
antifascista novarese: Felice Bonfantini (Cino)» da cui è tratto
questo racconto.
FUCILAZIONE ALLA CAPPELLA DI S. BERNARDO - Punta di Migiandone-Ornavasso, 14 giugno 1944
Caduti: Felice Cattaneo, Bartolomeo Oliaro, Remo Rabellotti, Edoardo Rossi
In questi giorni di giugno le azioni dei partigiani si
susseguono; occorre rifornirsi di armi, di munizioni, di viveri per fare
fronte alle necessità che derivano dall'arrivo continuo di giovani che,
per evitare di presentarsi ai centri raccolta delle forze armate della
R.S.I., si uniscono alle forze partigiane. Gli ultimi arrivati si danno da
fare e, sovente, sono i più entusiasti e si offrono volontari anche per
le azioni più rischiose.
Nella valle del Massone al Boden, alla Capanna Legnano
e a Cortemezzo vi sono il Comando ed alcuni reparti del Gruppo
Patrioti Ossola, la formazione che sta sviluppandosi e che ha come guida
Alfredo Di Dio; in seguito assumerà la denominazione di "Valtoce".
Nel pomeriggi dell'11 giugno, il Comando della Formazione viene
informato dell'esistenza, alla stazione di Gravellona Toce, di un vagone
pieno di sacchi di farina: il mattino seguente, tutto quel ben di Dio
partirà per la Germania.
Non vi è tempo da perdere; si costituisce
immediatamente un gruppo di una trentina di volontari a cui viene affidato
il compito di prelevare, nel corso della notte (dall'11 al 12 giugno), l'intero
carico di farina, sottratta dai nazifascisti agli ossolani, per sfamare i
tedeschi.
L'azione di prelevamento si conclude - per la prima
parte - felicemente; tutti i sacchi prelevati dal vagone vengono depositati
in un cascinale con l'intesa di provvedere, la notte seguente, al
trasporto del prezioso carico in un luogo più idoneo. Il Comando,
infatti, ritiene che la farina debba essere consegnata ai forni della zona
per la confezione del pane da distribuire alla popolazione.
Sulla strada del ritorno verso la base partigiana, una
squadretta composta da Felice Cattaneo di 20 anni, Bartolomeo Oliaro di 18
anni, Remo Rabellotti di 24 anni e Edoardo Rossi di 21 anni (guidata dal
più anziano, il galliatese dottore in veterinaria Rabellotti) si ferma
sulla strada del ritorno in un cascinale per chiedere del latte e del
pane. Quando i quattro giovani escono dal cascinale per riprendere il
cammino, si accorgono di essere circondati da tedeschi.
Prontamente Felice Cattaneo, che è in possesso di
fucile mitragliatore, spara una raffica, mentre Remo Rabellotti lancia
contro i più vicini una bomba a mano. Rimane ucciso un tedesco e un altro
si lamenta per essere stato colpito, ma la sia pur pronta reazione dei
partigiani viene soffocata dalla superiorità numerica, in uomini e in
armi, del nemico.
Disarmati e legati, i quattro giovani vengono, a calci,
a pugni e a randellate, spinti lungo la salita del Boden, sia per fare
esca ai compagni, sia per fare da scudo ai tedeschi in caso di attacco. Ma
né al Boden, né alla Capanna Legnano i tedeschi trovano i partigiani
ritiratisi nella boscaglia e più in alto e il tentato blitz va a vuoto. I
quattro partigiani catturati vengono riportati ad Ornavasso, rinchiusi in
un locale delle scuole elementari e sottoposti a inaudite torture nelle
giornate del 12 e del 13, in parte, del 14 giugno.
Nel pomeriggio avanzato del 14 giugno, Cattaneo, Oliaro,
Rabellotti e Rossi, che hanno subito la selvaggia violenza del nemico
senza rispondere alle reiterate richieste di informazioni sui loro
compagni di lotta, vengono prelevati, trascinati a due macchine in sosta
dinanzi alle scuole e, con la scorta di un reparto fascista, vengono
portati sulla strada di Migiandone, nei pressi della Cappella di S.
Bernardo.
I quattro giovani partigiani, buttati fuori dalle
macchine, con le mani legate dietro la schiena, sono costretti ad
inginocchiarsi a distanza di un metro circa l'uno dall'altro.
E' un milite che ha il compito di assassinare i
quattro patrioti di Alfredo Di Dio; passa dall'uno all'altro sparando
a ciascuno dei condannati due colpi di rivoltella, uno alla nuca e uno al
petto.
Remo Rabellotti è l'ultimo e un attimo prima che il
carnefice esegua la sentenza, grida «Viva l'Italia libera».
ASSASSINIO ALLA FONTE - Alpe Fornà, 16 giugno 1944
Caduti: Andrea Bottigelli, Ubaldo Cavallasca, Gian Franco Maceri, Antonio Motta,
Guido Orlandi, Rolando Raimondi, Italo Visco
E' in corso il terribile rastrellamento di giugno, un
rastrellamento che vede impegnati oltre diciassettemila nazifascisti,
formidabilmente armati, con reparti specializzati nella guerriglia
antipartigiana, con l'appoggio di mezzi corazzati, artiglieria pesante e
aerei. Le operazioni si effettuano in modo particolare, nel Verbano, nella
Cannobina, nella zona est della Bassa Ossola; lo scopo della operazione è
quello di arrivare all'eliminazione delle bande partigiane che stanno
rafforzandosi, dilagando, e che colpiscono seriamente i posti di blocco, i
presidi e le colonne in transito dei nazifascisti.
Sono le prime ore del mattino del 16 giugno.
Protagonista dell'azione è una squadretta della formazione "C. Battisti".
I tedeschi sono bloccati all'Alpe Vadà; potrebbe essere questo il
momento opportuno di tentare lo sganciamento e ritirarsi oltre il costone
della Zeda e così fa un piccolo reparto partigiano rendendosi conto che
le cose peggiorerebbero se ai tedeschi giungessero rinforzi.
Il piccolo reparto partigiano è composto dai
diciottenni Andrea Bottigelli, Ubaldo Cavallasca, Gianfranco Maceri, Guido
Orlandi, dai diciannovenni Antonio Motta e Rolando Raimondi, dal
ventisettenne Italo Visco e da "Rino il veneto". Gli otto partigiani
si portano all'Alpe Fornà ove si preparano ad affrontare i nazifascisti
provenienti dal basso, mentre non si accorgono del sopraggiungere, dall'alto,
di una colonna nemica.
Quando gli otto della "Battisti" si accorgono di
trovarsi fra due fuochi è ormai troppo tardi. Il nemico dà numerose
volte l'assalto alla posizione partigiana. Gli otto giovani coraggiosi
non si arrendono e respingono gli assalitori, ma l'impari lotta non può
continuare; cadono, uno ad uno, colpiti a morte; solo tre, ormai senza
munizioni e feriti, «aggrappati l'un l'altro sorgono dalla
terra e camminano contro il nemico».
Interrogati e picchiati, "Cucciolo", "Bruno" e
"Rino" non parlano e chiedono solo dell'acqua da bere; "Rino",
mentre gli altri due compagni vengono accompagnati alla fonte, viene
trattenuto da un soldato.
«Ritornano l'eco di una scarica e i soldati di
scorta».
"Rino il veneto" è costretto a fare il mulo per il
trasporto delle munizioni dei nazisti, poi, unito ai rastrellati civili,
viene inviato in un campo di concentramento in Germania.
ALLA BASE DEI ROCCIONI - Pizzo Marona, 17 giugno 1944
Caduti: Remo Barberi, Mario Brusca, Eliano Crespi, Mario Flaim,
Gaetano Garzoli, Franco Guerra, Mario Nigiotti, Fulvio Zigliotti, 3 ignoti
Un pugno di uomini della "Giovine Italia", la
banda nata subito dopo l'otto settembre del 1943 a Pian Cavallone, nell'Alto
Verbano, nel corso del terribile rastrellamento di giugno, sbaraglia un'autocolonna
della legione "Leonessa" e ne liquida l'intero comando.
I nazisti, che subentrano ai legionari neri nell'assalto
alla postazione partigiana, il 15 giugno non hanno miglior fortuna dei
loro camerati ma, anzi sono costretti a chiedere una tregua, peraltro
concessa, per raccogliere i propri morti e feriti. Poi entra in campo l'artiglieria
pesante, cannoni, mortai, mitragliere da 20 mm. E i partigiani,
approfittando del buio della notte, si sganciano abilmente. Il trentino
tenente Mario Flaim, con il suo piccolo reparto, si porta al Vadà per
dare man forte ai compagni. Questi resistono fino a che la situazione non
si fa disperata ed il giovane tenente è l'ultimo a inoltrarsi nel
faggeto restrostante, dopo aver tirato le ultime raffiche con la sua
mitragliatrice Glisenti.
Nella notte del 16 giugno, il tenente Mario Flaim e i
suoi uomini raggiungono, a Pizzo Marona, il comandante
"Rolando"; il coraggioso, infaticabile giovane ufficiale si
assume il compito di organizzare la difesa nei pressi della cappella. E',
evidentemente, una difesa di votati alla morte, ma si tratta di impegnare
il nemico per dare il tempo al "grosso" di portarsi oltre i roccioni,
salvando la vita di molti compagni ancora disarmati.
Undici giovani partigiani cadono a Pizzo Marona.
«Undici corpi alla base dei roccioni che
guardano sulla Val Pagallo» scrive Nino Chiovini. Il tenente
degli alpini Mario Flaim è ritrovato «fra le rocce della tragica
Marona, il volto esanime, massacrato, rivolto al sole».
COSTRETTI A SCAVARSI LA FOSSA
Rovegro, 12 giugno 1944
Caduti: Alberto Mazzola, William Scalabrino
Aurano, 17 Giugno 1944
Caduti: Felice Antoniazza, Giovanni Borotti, Antonio Colombo, Bruno Gussoni,
Tommaso Pessina, Franco Pomice, Ignotoo
Ponte Casletto, 17 giugno 1944
Caduti: Pasquale Riveda, Ignoto
Falmenta, 18 giugno 1944
Caduti: Emilio Benni, De Paoli Giovanni, Lupi Ausano, Perego Natale
Pogallo, 18 giugno 1944
Caduti: Bruno Cerutti, Fausto Colombo, Giacomo Crippa,
Italo Demari, Ives Garlando, Mario Gavitelli, Leonardo Griffino, Elio
Maggioni, Luigi Novati, Celestino Nicolò, Carlo Rocca e 7 Ignoti
Mario Muneghina, il cap. "Mario" della divisione autonoma
"Valdossola" ricorda ciò che avviene nel giugno del '44: «le
divisioni naziste e le legioni fasciste dopo aver bloccato tutto il
traffico lacustre, ferroviario e stradale nella zona compresa nel
quadrilatero Valdemara, Pallanza, Masera, Valle Vigezzo, Cento Valli, dopo
aver piazzato centinaia di carri armati e di autoblindo a cento metri l'uno
dall'altro, lungo tutto il perimetro della zona e mentre truppe alpine
manovrano per occupare i passi del confine svizzero, attaccano da ogni
lato i 400 partigiani».
In quel quadrilatero attorno cui si ammassano oltre
diciassettemila nazisti e fascisti, «truppe speciali»
addestrate alla guerriglia, ci sono «i falchi della Val Grande,
gli audaci della Marona e dello Zeda di cui i presidi tedeschi e fascisti
della sponda ovest del Lago Maggiore hanno provato il mordente».
«Le gesta di quegli uomini hanno assunto, nella
fantasia popolare, proporzioni gigantesche fino al punto di ritenere per
certo che siano almeno cinquemila, annidati nelle aspre valli che solcano
la zona. Sono solo 400 e non più di 300 armati alla meno peggio».
Nel pomeriggio avanzato del'11 giugno ha inizio il
rastrellamento, «moschetti contro cannoni e mortai»
ricorda il cap. "Mario", «mitra e sten contro mitragliatrici pesanti
mentre gli aerei solcano minacciosi il cielo mitragliando e spezzonando». Un
esercito contro un pugno di uomini. Eppure i partigiani si battono
ovunque, con grande coraggio, fino all'esaurimento delle munizioni, fino
alla morte.
Una colonna motorizzata tedesca punta su Ponte Casletto;
i partigiani resistono fino al tramonto del giorno 12. Il cap. "Mario"
ordina ai reparti che si battono a Ponte Velina e a Ponte Casletto di
portarsi in Val Pogallo. I feriti vengono dirottati in località lontane
dalla zona del fuoco; sempre attivissima la giovane infermiera Maria Peron
segue i feriti portandosi dall'uno all'altro, offrendo i suoi servizi,
dimostrando capacità e grande passione per la missione che ha scelto.
Ai piedi dell'Aurasca, sull'omonimo rio, sorgono le
poche case di Pogallo. Nell'intera zona si combatte senza soste e
ovunque i nazifascisti lasciano il segno della loro ferocia; i partigiani
Alberto Mazzola e Willam Scalabrino vengono catturati a Ponte Casletto,
torturati e poi, il 12 giugno, fucilati a ridosso del muro di cinta del
cimitero di Rovegro.
I nazifascisti raggiungo Pogallo il 14 giugno; il 15
giugno recuperano, alla Bocchetta di Campo, il materiale di un lancio
effettuato da un aereo alleato che, nella notte, ha scambiato i fuochi di
un bivacco per le segnalazioni convenute in caso di lancio. Sempre a
Pogallo, il comandante tedesco si insedia nel fabbricato di un'impresa
boschiva.
Il 17 giugno, ad Aurano, sette partigiani, Felice
Antoniazza, Giovanni Borotti, Antonio Colombo, Bruno Gussoni, Tommaso
Pessina, Franco Pomice ed un altro compagno di cui non si conosce il nome,
sono costretti a scavarsi la fossa, poi vengono fucilati; sempre nello
stesso giorno, a Ponte Casletto, vengono fucilati Pasquale Riveda e un
altro partigiano di cui non si conoscono le generalità: il 18 giugno, a
Falmenta, vengono fucilati Emilio Benni, Giovanni De Paoli, Ausano Lupi,
Natale Perego.
Ed ora è la volta di Pogallo.
Nei pressi dell'Alpe Baldessant, vengono catturati,
esausti per il digiuno, la stanchezza e il permanente stato di tensione,
dieci partigiani; il più giovane non ha ancora compiuto i sedici anni, il
più anziano ne ha ventidue.
Il partigiano Aldo Ruffo, scampato alla morte internato
in Germania e miracolosamente scampato ancora una volta alla morte
racconta che, durante la discesa verso Pogallo, un soldato tedesco cade in
un rio; quattro giovani prigionieri gli salvano la vita; pare che il
nemico voglia dimostrarsi riconoscente, li rassicura sulla loro sorte e
dà loro da mangiare, poi li accompagna alla sede del comando, a Pogallo.
Nella notte tra il 17 e il 18 giugno vanno ad
aggiungersi ai dieci prigionieri altri otto partigiani catturati alla
Bocchetta di Campo. Nino Chiovini racconta: «Ai dieci catturati il
giorno precedente viene ordinato di scavare una lunga fossa alla base del
sottostante terrapieno. Essi cominciano a dubitare della assicurazione
dell'ufficiale tedesco. Alle undici ha inizio la cerimonia conclusiva;
uno alla volta ogni prigioniero viene convocato nell'ufficio della
teleferica e gli viene fatto firmare un verbale scritto in tedesco; poi un
soldato lo accompagna al margine della fossa, gli legge nella sua lingua
ciò che è scritto nel foglio che tiene in mano; lo fa spogliare, infine
lo lascia solo davanti a sei mauser puntati. Un gutturale, secco comando e
la scarica parte. I mauser vengono subito ricaricati in attesa dell'esecuzione
successiva».
«Presto ci si impratichisce e si perde minor
tempo; il tedesco legge durante la svestizione, cosicché il condannato,
appena spogliato, trova il posto libero sull'orlo della fossa senza
dovere attendere che finiscano con quello che precede. Così muoiono i
diciotto partigiani di Pogallo».
MARCIA VERSO LA MORTE - Fondotoce, 20 giugno 1944
Caduti: Giovanni Alberti, Giovanni Barelli, Carlo Antonio Beretta, Angelo Bizzozzero,
Emilio Bonalumi, Giglio Battelli, Luigi Brioschi, Luigi Brown, Dante Capuzzo, Sergio Ciribì,
Giuseppe Cocco, Adriano Corna, Achille Fabbro, Olivo Favaroni, Angelo Freguglia,
Franco Ghiringhelli, Cosimo Guarneri, Giovanni La Ciacera, Franco Marchetti, Arturo Mezz'agora,
Rodolfo Pellicelli, Giuseppe Perraro, Ezio Rizzato, Marino Rosa Aldo, Rossi, Carlo Sacchi,
Cleonice Tomasetti, Renzo Villa, Giovanni Volpati, Frank Hellis e 12 Ignoti
Sono ormai otto giorni che i partigiani delle
formazioni "Valdossola", "Giovine Italia", "Battisti" e "Perotti" resistono, sulle
alture del Verbano, al massiccio e feroce attacco del nemico, che conta su
una forza di oltre diciassettemila uomini, molti dei quali addestrati alla
guerriglia, poderosamente armati, e sostenuti dall'artiglieria pesante e
dagli aerei che segnalano la presenza dei partigiani nelle vallate e che
seminano la morte mitragliando e spezzonando. I partigiani combattono con
grande coraggio e valore, colpiscono i nazifascisti con veloci e ardite
azioni di sorpresa, ma le forze del nemico sono soverchianti.
Quattrocento partigiani abbarbicati sui monti del
Verbano, della Cannobina e della Valle del Toce rimanevano chiusi nella
morsa.
Il nemico, fortemente armato ed equipaggiato, avanzava
razziando, bruciando, distruggendo tutto ciò che trovava sul suo cammino,
sull'Ossola si abbatte la violenza degli Unni della Germania di Hitler e
dei loro camerati fascisti: decine e decine di torturati e di fucilati;
decine di case, cascinali, baite saccheggiate e distrutte. Un bilancio
pesante per le popolazioni e i partigiani e siamo appena alla metà dell'opera
devastatrice condotta dai nazifascisti nei 18-20 giorni del giugno 1944.
Dall'Asilo di Malesco a Villa Caramora di Intra
In un primo tempo i giovani partigiani catturati nel
corso dei rastrellamenti vengono rinchiusi nelle cantine dell'Asilo
Infantile di Malesco e sottoposti a incredibili torture. Il giorno 20
giugno, nelle prime ore del mattino, quarantuno prigionieri vengono
caricati su due grossi autocarri e, da Malesco, vengono trasferiti a Villa
Caramora di Intra che è sede del Comando SS.
Ricorda l'avv. Emilio Liguori, presidente del
tribunale di Verbania, arrestato qualche giorno prima per sospetta
attività antifascista e già "ospite" della cantina di Villa Caramora:
«la porta della cantina si apre e viene fatta entrare una trentina
di persone, spinte avanti da calci e a colpi di canna di moschetto da una
squadra di omacci inferociti, bestiali, i quali indossano la cosiddetta
onorata divisa del soldato del popolo eletto, dell'herrenvolk, del
superpopolo: il teutonico».
«La scena che dopo l'ingresso in cantina di tanti
disgraziati si presenta al mio sguardo, è delle più penose alle quali io
abbia mai assistito". Penso che un branco di lupi famelici, quando
capita in mezzo a un branco di pecore, usi verso le proprie vittime una
ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i
poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi
di calcio del moschetto, le nerbate non si contano più. E' una vera
gragnuola che si abbatte inesorabilmente su dei miseri corpi già
grondanti sangue per ogni dove, su dei visi già tumefatti per le percosse
ricevute in precedenza. Gli aguzzini sembrano presi nel turbine di un
sadico furore, in preda al delirium tremens di marca tipicamente
teutonica. Ogni nerbata, ogni colpo è per giunta accompagnato da un
grugnito che sta a indicare la compiacenza dei carnefici. Una scena
orribile, dico, con la quale contrasta con la nobile serenità dei
torturati. Non un grido, non un lamento. Una fierezza diffusa sul volto di
tutti. Dal mio posto di osservazione ogni tanto sono costretto a chiudere
gli occhi per non vedere. Temo di impazzire per lo sdegno suscitato in me
da tanto scempio, cui sono costretto ad assistere impotente».
«Il vertice della furibonda esplosione di odio contro
quei poveri partigiani viene raggiunto quando, ordinato loro di
distendersi bocconi a terra, i teutonici si mettono a pestarli
camminandoci sopra con gli scarponi chiodati, grugnendo animalescamente».
«Noto che tra i partigiani vi è una donna, di statura
media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non vengono
risparmiati i maltrattamenti; anzi, sto per dire che la dose delle
angherie sia nei suoi confronti maggiore. Mi pare che quando arriva il suo
turno il nerbo si abbassi sulle sue spalle con maggior furore e più
violenti sono i calci che la raggiungono da ogni parte. Eppure quella
coraggiosa donna non solo incassa ogni colpo senza emettere un grido, ma,
calma e serena, fa coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia
bestiale».
«Ravviso con una fitta al cuore, che tra i partigiani c'è
anche il caro tenete Rizzato del campo 12 (il comando di Orfalecchio) l'aiutante
maggiore del gruppo».
«Sul suo bel volto, di un ovale perfetto, dagli occhi
già pieni di tanta luce, è diventato una povera maschera intrisa di
sangue, orribilmente tumefatta per le percosse ricevute. Lo riconobbi a stento».
Ore 15 del 20 giugno 1944, un reparto delle SS preleva
dalla cantina di Villa Caramora quarantatré persone (i quarantuno
provenienti da Malesco, più Cleonice Tomassetti e Marino Rosa, un operaio
di Intra arrestato due giorni prima mentre era in procinto di organizzare
un'azione di sabotaggio).
Ed è ancora il magistrato Emilio Liguori che ricorda:
«I guardiani danno un'occhiata alla loro
divisa. Alcuni si tolgono la tuta mimetica, rimanendo in camicia e
pantaloni marrone. Qualcuno manovra per provare i congegni dell'arma
della quale è in possesso; tutti poi si danno con fervore a ravviarsi i
capelli, guardandosi nello specchio del quale ognuno è in possesso, e
avendo cura che la scriminatura segni un'impeccabile linea retta, dall'occipite
alla regione frontale sinistra, senza sgarrare di un pelo. Tutto questo
dà l'impressione di gente in procinto di recarsi ad assistere a uno
spettacolo che si preannunci assai divertente, e non già di persone che,
per contro, si accingono a compiere un eccidio senza nome. Lo spettacolo
che sta per essere ammannito viene subito intuito dalla donna (Cleonice
Tomassetti) alla quale ho accennato sopra. Costei si leva in piedi e con
fare spontaneo, senza forzare il tono della voce, direi quasi con
amorevolezza, rivolta ai compagni di sciagura pronuncia queste testuali
parole: «su, coraggio ragazzi, è giunto il plotone d'esecuzione.
Niente paura. Ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da
spie, da servitori dei tedeschi». Ha appena finito di parlare che,
infuriato, le è addosso un soldato germanico che deve capire un poco l'italiano
o che del senso delle parole pronunciate viene messo al corrente da un
militare italiano. (Quale schifo il contegno servile verso i padroni
tedeschi dei militi fascisti! Non di tutti per fortuna, perché ne vedo
più di uno fremere di rabbia osservando ciò che di orribile si compie
attorno a lui)».
«La donna, colpita atrocemente da più di uno schiaffo e
da uno sputo sul viso, non si scompone; incassa impassibile, e poi, fiera
e con aria ispirata, quasi trasumanata, dice parole, che, per mio conto,
la rendono degna di essere paragonata ad una donna spartana, o meglio
ancora ad una eroina del nostro Risorgimento: «Se percuotendomi
volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già
annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che è opera
vana: quello non lo domerete mai!», poi rivolta ai compagni
«Ragazzi, viva l'Italia, viva la libertà per tutti», grida
con voce squillante».
Si forma la colonna alla cui testa vi è il tenente
Ezio Rizzato, affiancato da Cleonice Tomassetti, mentre ai lati due
partigiani costretti a tenere i bastoni a cui è affisso un cartello con
la scritta "SONO QUESTI I LIBERATORI D'ITALIA OPPURE SONO
BANDITI".
I quarantatré, incolonnati, preceduti, seguiti e
fiancheggiati da una consistente "muta" di nazisti, percorrono, a
piedi, la strada che da Intra porta a Fondotoce, attraverso Pallanza e
Suna e l'intero abitato della frazione di Fondotoce.
L e strade sono deserte
La colonna dei condannati a morte, dei quarantatré
giovani combattenti della libertà che portano, profondi, i segni delle
torture subite nelle cantine dell'Asilo di Malesco e di Villa Caramora,
percorrano la strada della loro via Crucis tenendo fieramente il capo
eretto.
Lungo, interminabile il cammino sotto il sole, in una
afosa giornata di giugno che porta con sé la Morte. Ecco, finalmente ai
piedi del monte, sul greto del canale che allaccia il lago di Mergozzo al
lago Maggiore, ai confini fra il Verbano e l'Ossola, in una vasta piana
affossata, ha termine il cammino dei martiri. Sono le 18 del 20 giugno
1944.
L'ordine è di presentarsi tre per tre dinanzi al
plotone d'esecuzione. La donna, Cleonice Tomassetti, prima di portarsi
dinanzi ai carnefici, grida: «Viva l'Italia libera» e i
compagni di martirio ripetono «Viva l'Italia libera». Il rito
dura quasi un'ora poi l'ultima raffica e i colpi di grazia.
Nelle prime ore della notte, dal mucchio dei morti, sia
pur ferito in più parti, esce, aiutato da alcuni abitanti di Fondotoce,
il partigiano Carlo Suzzi. Dopo circa un mese lo scampato alla morte,
ristabilito, riprende il suo posto nella formazione "Valdossola" e,
da quel momento, i compagni lo chiamano "Quarantatré".
A Fondotoce, sul luogo dell'eccidio, nel 1963, il
Comune di Verbania ha innalzato un monumento. Sulle rosee lastre del marmo
di Candoglia, sono stati scritti i nomi di milleduecento caduti della
Provincia di Novara (comprensiva anche del Verbano Cusio e Ossola). Dal
campo di sterminio nazista di Mauthausen sono state trasportate le ceneri
che sono deposte nell'urna ai piedi dell'alta Croce.
UN GENEROSO COMANDANTE PARTIGIANO - Loita di Baveno, 20 giugno 1944
Caduto: Franco Abrami
Nella zona del Mottarone, da tempo, operano alcuni
gruppi, più o meno consistenti, di partigiani; alla loro guida vi sono
Renato Boeri "Renatino", Giulio Lavarini e Franco Abrami. "Renatino",
con i suoi uomini, opera nella zona dell'Alpe Formica ove, in «una
baita ai margini di un bosco sulle pendici del monte Cornaggia, sopra
Sovazza e in direzione di Massino» vi è una radio clandestina
quotidianamente in contatto con il Quartier Generale Alleato.
Nei pressi della zona stessa operano gli altri due
gruppi, quello comandato da Lavarini "Tom Mix" e quello comandato dal
ventenne Franco Abrami; quest'ultimo è al comando di una quindicina di
giovani arditi che si fanno chiamare "lupi del Mottarone".
Già alla fine di maggio i tre gruppi si sono uniti al
"Iº Gruppo Ossola" comandato da Alfredo Di Dio. Nella zona, dice
Renato Boeri «si ha notizia da radio Londra di forti
concentramenti di forze tedesche e fasciste sul Verbano e di grossi
rastrellamenti nella zona della Val Grande; già alcune puntate si sono
verificate sulle pendici del Mottarone. Franco è ansioso di agire e mi
dice che vuol recarsi a Baveno, dove ha sede il Comando tedesco della
zona, per fare dei prigionieri e porsi quindi in una posizione di
forza». Ricorda l'amico Alloisio che Franco, «conscio
dell'arduo compito assuntosi, non tralascia mai impresa, pericolosa che
sia, pur di infliggere perdite al nemico».
«Non vuol perdere un'occasione che gli
permetta,» ricorda Tino Vimercati «con una azione a
sorpresa e rapida, di fare dei prigionieri nazisti e fascisti e chiedere
il cambio con partigiani e civili catturati nel rastrellamento in
corso».
Franco Abrami, con Oreste Domard, Vincenzo Baroni, Mariolino De Lorenzi,
Luigi Cavagliato e Pietro Lilla, lascia il campo base, si porta a Gignese dove
requisisce un'automobile e si dirige verso Baveno. I sei partigiani
raggiungono la roccaforte nemica senza incontrare ostacoli. Cavagliato e
Lilla si dirigono verso la stazione ferroviaria e, durante il percorso,
fanno prigionieri due soldati tedeschi e tre militi fascisti.
Franco con Domard, Vincenzo e Mariolino, si porta sulla
statale 33, sul lungolago e, quasi subito, i tre giovani si trovano di
fronte a un'automobile scoperta; Mariolino, imbracciando il mitra, balza
in mezzo alla strada e intima l'alt!, la macchina si ferma, ma gli
occupanti, un capitano tedesco, un maggiore e un sergente della milizia
oltre all'autista (provenivano da Fondotoce dove nella stessa giornata
è avvenuto l'eccidio dei 42 martiri), tentano di reagire; nella
sparatoria che segue cadono, colpiti a morte, i due ufficiali, il
sottufficiale rimane ferito e l'autista si salva con la fuga.
Evidentemente la sparatoria dà l'allarme al Comando tedesco e, quindi
Franco e Domard, si ritirano verso la stazione dove si incontrano con
Cavagliato e Lilla che hanno già caricato su un camion i loro
prigionieri. Vincenzo e Mariolino trovano rifugio in casa di amici di
Baveno.
Non vi è tempo da perdere. Franco «posto un
prigioniero alla guida del camion, si siede sul parafango anteriore»
invita i suoi compagni a proteggergli la partenza di fronte al nemico che
ormai ha raggiunto la piazzetta della Stazione e, quindi, a seguirlo a
bordo della macchina prelevata a Gignese; poi, il giovane comandante, con
il fucile puntato, ordina all'autista di imboccare la strada che porta
verso la montagna.
I tre compagni di Franco si difendono, con grande
coraggio, per il tempo necessario al camion di defilarsi, quindi salgono
in macchina e, a tutta velocità, prendono la strada dei monti. A non più
di mezzo chilometro dal luogo di partenza, dinnanzi alla villa Nido, i tre
partigiani trovano, in mezzo alla strada, in una pozza di sangue il loro
comandante «probabilmente ucciso da uno dei prigionieri che aveva
occultato una rivoltella». Tino Vimercati ricorda che «dalla
villa Nido ove lavorava, esce la mamma di Franco che resta impietrita
dinnanzi al cadavere del giovane figlio. La scena è straziante»
ma i tre partigiani, che sanno di essere inseguiti, caricano il loro
comandante nell'auto e raggiungono l'accampamento.
Gli altri due partigiani rimasti a Baveno riescono a
sfuggire alla cattura, aiutati dai cittadini di Baveno, rimangono nascosti
durante la notte e il giorno seguente rientrano al campo base.
La "IIª Brigata Mottarone" della divisione "Valtoce"
prenderà la denominazione di "Brigata Franco Abrami".
TRA LE AIUOLE FIORITE - Baveno, 21 giugno 1944
Caduti: Ettore Aielli, Antonio Buraschini, Aquilino Colombo, Pericle Tudescato,
Ferruccio Valaguzza, G. Pietro Zaccaria e 11 Ignoti
Il giorno successivo all'eccidio di Fondotoce e all'azione
di Franco Abrami, seguita dal suo assassinio, i nazisti trasferiscono dal
carcere, ove sono rinchiusi, sul lungolago di Baveno diciassette
partigiani della formazione "Valdossola", catturati nel corso di un
rastrellamento.
Quattro alla volta, «tra le aiuole
fiorite», li falciano a raffiche di mitra. Undici dei diciassette
partigiani trucidati non saranno identificati in quanto i banditi
nazifascisti hanno sottratto loro non solo denaro e catenelle d'oro come
d'abitudine, ma anche i documenti d'identità. Ed ecco il comunicato
della Questura di Novara pubblicato da Il Popolo Novarese del 29
giugno 1944:
«Il Comando Germanico, in seguito al vile
assassinio di due ufficiali avvenuto il 20 corrente, ha ordinato la
fucilazione di 17 banditi. Simile ritorsione sarà effettuata per
attentati ai componenti le Forze Armate e di Polizia Italiane. Qualora
dovessero verificarsi attentati più gravi e i responsabili non fossero
tempestivamente denunciati dalla popolazione, i provvedimenti potranno
assumere proporzioni tali da punire l'intero paese ove i fatti fossero
avvenuti».
I fucilati di Baveno sono stati sepolti in una fossa
comune.
ASSASSINIO DI UNO STUDENTE - Novara, 21 giugno 1944
Caduto: Caduto: Giulio Orazio De Simoni
Nonostante gli sforzi compiuti dalla scuola fascista
per forgiare i giovani sul modello mussoliniano e per farli «credere,
obbedire e combattere» senza muovere alcuna obiezione, la gioventù
che cresce nell'epoca fascista, quando arriva il momento giusto, non
solo non crede e non ubbidisce agli ordini del Duce, ma offre un grande
contributo alla Resistenza combattendo contro i fascisti e i nazisti che
Mussolini ha fatto calare dalla Germania di Htler.
Le "Lettere dei condannati a morte della
Resistenza Italiana" ci danno un'ampia documentazione delle più
alte virtù di tanti giovani che, per nulla rassegnati alla soppressione
di ogni forma di libertà, hanno, con le loro scelte e con il loro
sacrificio, offerto alle nuove generazioni un nobilissimo esempio.
Giulio Orazio De Simoni è un diciannovenne studente
universitario milanese e già da alcuni mesi milita nelle file dei
gappisti di Milano. In primavera, il giovane universitario milanese riesce
a prendere contatto con i partigiani garibaldini della provincia di Novara
e, volendo unirsi a loro, il 21 giugno parte da Milano per fare tappa a
Novara e di lì ripartire per raggiungere le montagne dell' Alto
Novarese.
Un'imprudenza lo porta a percorrere i portici di
Corso Vittorio Emanuele alle 22 dello stesso giorno del suo arrivo a
Novara; bloccato da quattro militi della GNR viene trascinato e spinto, a
calci e a pugni, fino alla Casa Littoria. Bastonato nel corso dell'interrogatorio
il De Simoni non dà alcuna indicazione circa la propria attività
clandestina.
Constatata l'inutilità di proseguire l'interrogatorio,
i fascisti lo trascinano, già più morto che vivo, fuori dalla Casa del
Littorio e lo fanno salire a bordo di una vettura della polizia. La
macchina riparte verso il centro città, poi si dirige verso la periferia,
percorrendo viale Dante, il cavalcavia Sempione, corso della Vittoria. Nei
pressi di Veveri, la macchina si ferma e De Simoni viene costretto a
scendere per proseguire a piedi. Dopo alcuni passi il giovane
universitario viene raggiunto e abbattuto da numerosi colpi di rivoltella,
poi la macchina riparte verso il centro città.
E' circa mezzanotte quando la Guardia di P.S. Comoli,
che rientra a Novara, si avvede del corpo steso in mezzo alla strada in
una pozza di sangue; la guardia Comoli avverte immediatamente la C.R.I.
che provveda al trasporto del De Simoni in guardia medica all'Ospedale
Maggiore di Novara. E' in servizio il dottor Annovazzi che riscontra «gravi
ferite multiple all'emitorace destro con forte anemia per
dissanguamento».
Negli ultimi momenti di vita, Giulio Orazio De Simoni
riesce a dare le proprie generalità, l'indirizzo della famiglia, così
come riesce a raccontare come si sono svolti i fatti dal momento dell'arresto..
UNITI NELLA LOTTA E NELLA MORTE
Alpe Razzoli, 20 giugno 1944
Caduto: Bruno Vigorelli
Alpe Casarolo, 22 giugno 1944
Caduti: Gelindo Alimi, Enrico Andreolotti, Giovanni Andreolotti, Enrico Fovanna,
Abele Iseni, Carlo Dettagliati, Marino Soldà, Adolfo Vigorelli
Bruno di 24 anni e "Fofi" di 23 anni sono i figli
di un noto avvocato lombardo, Ezio Vigorelli, socialista e da sempre
antifascista. Nel 1943 Ezio Vigorelli, ricercato dalla polizia fascista,
si rifugia, con la famiglia, in Svizzera.
Bruno e "Fofi" sono, quindi, al sicuro a Lugano dove
possono rimanere senza correre alcun rischio. Un giorno di giugno arriva
nella cittadina del Canton Ticino, in cerca di aiuto per i suoi
partigiani, il comandante delle formazioni "Valdossola", Dionigi
Superti; quando sta per riprendere il cammino per il rientro in Italia, i
due giovani gli si aggregano e, dopo due giorni di marcia, nella notte fra
il 13 e il 14 giugno, i tre raggiungono Pogallo. Il giorno 15 Superti
riprende la marcia con una settantina di uomini della formazione "Valdossola"
e i due fratelli Vigorelli sono anche loro della partita. Si va verso la
Bocchetta di Campo, a oltre duemila metri, per arrivare in Val Grande.
E' in corso il terribile rastrellamento che investe il
Verbano, la Cannobina e la sponda occidentale dell'Ossola; è scesa una
fitta, umida nebbia che tutto avvolge; ciò può essere tanto
provvidenziale quanto pericoloso , perché nasconde alla vista del nemico,
ma può anche improvvisamente alzarsi e fare trovare il nemico a pochi
passi. A tarda sera il reparto partigiano raggiunge la Bocchetta di Campo
dove fa sosta per la notte; non più di una ventina riescono a rifugiarsi
in una baita, gli altri dormono all'aperto. Il giorno seguente si
riprende il cammino in direzione dell'Alpe Portatola e, poi, in giù,
verso l'Arca, a 790 metri di altitudine.
Ma, prima di incamminarsi per l'ultima tappa, Superti
manda in ricognizione due uomini; uno di essi ritorna dopo circa un'ora
per informare il Comandante che un reparto tedesco ha fatto sosta nelle
baite de l'Arca e ora si avvia verso Orfalecchio, sul rio Valgrande, ove
vi è il magazzino di viveri della "Valdossola".
Il reparto partigiano riprende, cauto, il cammino e
raggiunge l'Arca a notte alta; l'indomani mattina partono in
ricognizione alcune pattuglie. Una delle pattuglie viene individuata dai
tedeschi. Il gruppo di Superti viene attaccato, reagisce con efficace
contrattacco condotto da una quindicina di uomini mentre il grosso riesce
a sganciarsi e portarsi nel canalone che divide la vallata e che sale
verso cima Lazzaretto e cima Peduna. E' già notte quando l'intero
gruppo guidato da Superti raggiunge le prime falde del nevaio a un'altitudine
di circa 1800 metri.
Nei giorni 18 e 19 il Gruppo Superti rimane fermo; gli
uomini sono estenuati per la lunga arrampicata dei giorni precedenti, per
la fame e il freddo. Il 20 mattina riprende la marcia in una zona
assolutamente priva di mulattiere, di sentieri e immersa nella nebbia. Nei
pressi dell'Alpe Portatola avviene ciò che si paventava da giorni, la
nebbia si squarcia, cosicché partigiani e tedeschi si trovano di fronte a
poco più di un centinaio di metri gli uni dagli altri.
Non vi è alcuna possibilità di evitare lo scontro
frontale. Il numero dei tedeschi è tre o quattro volte superiore a quello
dei partigiani; non solo, i tedeschi hanno l'appoggio di alcuni pezzi di
artiglieria. I partigiani non si arrendono, si battono con grande coraggio
fino alla morte. Molti partigiani perdono la vita e i tedeschi riconoscono
il valore dei giovani combattenti della divisione "Valdossola". Il
Comandante ordina ai suoi soldati di presentare le armi, per rendere onore
ad un gruppo di veri, leali combattenti.
Intanto i fratelli Vigorelli, Mario Moranti e i loro
uomini riescono a sfuggire all'accerchiamento e a portarsi verso l'alpe
Razzoli; nel corso della durissima marcia, uno dei Vigorelli, Bruno , già
ferito, precipita in un canalone e muore nella caduta, rotolando da un
masso all'altro. E' cominciato a piovere ma il gruppetto prosegue
finchè, a notte inoltrata, raggiunge l'Alpe Casarolo. Nella baita vi
sono i caprai Enrico e Giovanni Andreolotti che stanno facendo polenta e
vi è pure latte e formaggio; vi è finalmente qualcosa per smorzare gli
stimoli della fame.
Stremati, gli uomini della "Valdossola" pensano di
aver trovato un angolo di pace, ma non è così. I tedeschi hanno ormai
invaso la valle, mentre alcuni partigiani si allontanano dalla baita degli
Andreolotti per ricercare il sentiero che dovranno percorrere per
raggiungere un'altra località; i tedeschi raggiungono la baita dal cui
camino esce il fumo e si presentano sulla soglia con i mitra spianati.
Pronta è la reazione dei partigiani ma l'uno dopo l'altro cadono i
sei ragazzi della "Valdossola" e i due caprai di Colloro. Sale alto il
fumo bigio, acre dalla baita che agonizza fra le fiamme.
STRAPPATE LE UNGHIE DELLE MANI E DEI PIEDI - Malesco-Finero,
23 giugno 1944 (3)
Caduti: Mario Crescini Aloisi, Fiorentino Gallarati,
Bruno Gerosa, Sebastiano Lauteri, Giorgio Longoni, Mario Martinelli,
Olinto Pasetti, Serafino Paternoster, Pietro Pezzetti, Gaetano Ricci,
Luciano Turati, Ugo Canotti, Giuseppe Ziliani e due Ignoti.
Nazisti e fascisti continuano a rastrellare, torturare,
distruggere e fucilare. L'elenco delle località che portano il segno
delle orde barbariche sembra non avere più fine: Alpe Piana, Alpe
Casarolo, Beura, Alpe Striglia, Falmenta, Cicogna, Pizzo Marona, Colle
S.Bernardino Verbano, Colloro vanno ad aggiungersi a quelle già in
precedenza colpite.
Il partigiano Giuseppe Zappa, il "sopravvissuto di
Malesco", racconta quanto avviene in questo terribile mese di giugno, a
Malesco e a Finero, due piccoli paesi a cavallo fra la Valle Vigezzo e la
Valle Cannobina. All'alba del 22 giugno, quattro partigiani, fra cui lo
Zappa, vengono catturati in una baita di Pogallo; vengono presi a calci e
a pugni e, caricati di cassette di munizioni, trascinati e spinti lungo i
sentieri della montagna fino a Malesco.
«Senza mai farci toccare cibo e acqua. A
Malesco veniamo rinchiusi nell'Asilo, nella cella della morte, nella
cella languono altri dodici partigiani, disfatti dalle torture. Io sono
paralizzato dal terrore. Un tedesco mi chiede, indicando i miei compagni
di cella: «Li conosci? Se li conosci dì i loro nomi ed avrai salva
la vita. Se taci, il plotone ti aspetta».
Resto muto per un momento, poi, con uno sforzo,
mormoro: «Non li conosco». Il tedesco allora urla:
«Vigliacco, menti» e mi colpisce sulla testa con il calcio del
suo Mauser. Cado privo di sensi..».
Zappa, ripresosi, riconosce alcuni compaesani fra i
compagni di cella, ma tanta è la stanchezza in tutti che non riescono a
proferire parola.
Zappa continua: «La sera cominciano le torture:
mi vengono strappate le unghie delle mani e dei piedi e mi viene bruciato
il braccio sinistro dopo tre ore di torture senza avermi cavato nulla
dalla bocca, vengo gettato nuovamente nella cella più morto che vivo».
E' il 23 giugno.
«Alle due pomeridiane» ricorda Zappa «mi
portano nel cortile dell'asilo. Una donna riesce ad avvicinarmi e mi dà
un pezzo di pane, ma un fascista se ne accorge e me lo strappa di mano».
I prigionieri vengono caricati su un camion e
trasportati sul piazzale antistante il cimitero di Finero. E' l'infermiera
partigiana Maria Peron che continua il racconto: «Una scena
orribile e selvaggia mi sconvolge: un gruppo di soldati tedeschi ha
addossato al muro esterno del cimitero di Finero alcuni partigiani; con
una prima scarica li colpiscono alle gambe e, con una seconda, alla testa.
Quelli che ancora si muovono vengono finiti con un colpo di pistola al
capo».
Eppure uno dei "fucilati" sfugge alla morte. Non
appena i nazifascisti si allontanano, un sacerdote e una donna si
avvicinano al "mucchio", s'inginocchiano e, mentre pregano, sentono
dei lamenti. E' una ricerca affannosa fra i cadaveri e dal "mucchio"
viene estratto Giuseppe Zappa risparmiato dal colpo di grazia.
Il partigiano Zappa viene trasportato in un vicino
cascinale e amorevolmente curato, ma la sua avventura non è ancora
chiusa. Giuseppe Zappa viene nuovamente catturato, trasportato a Torino
rinchiuso alle "Nuove" e, infine, trasferito nel campo di
concentramento di Innsbruck. Zappa fugge dal campo di concentramento e
rientra in Italia per raggiungere ancora una volta i suoi monti e
riprendere la lotta fino alla Liberazione .
(3) Il racconto dello Zappa è stato pubblicato su
"La Stella Alpina" del 19 maggio 1946 con il titolo "Il
sopravvissuto di Malesco racconta" e la testimonianza di Maria Peron
è tratta dal libro "Val Grande partigiana e dintorni: 4 storie di
protagonisti" di Nino Chiovini, editore Libreria Margaroli.
ALLA "CAMINADINA" - Oleggio-Bellinzago, 23 giugno 1944
Caduti: Paolo Alleva, Rinaldo Bertolotti, Triestino Pagani, Achille Porta.
Nel convegno dei comandanti garibaldini, tenuto negli
ultimi giorni di maggio, a Valduggia, viene presa la decisione «di
spingere le formazioni ad operare più in basso per portare la guerriglia
in pianura».
I Comandanti "Nello", "Andrei" e "Pesgu" si
assumono il compito di inviare alcuni loro reparti ad attaccare un grosso
centro dell'Organizzazione Todt ad Oleggio e un forte presidio nemico
alloggiato nei capannoni della Fiat presso Bellinzago. L'azione si
effettua il 23 giugno. L'attacco al deposito di Oleggio ha un inizio
felice; vengono distrutti macchinari e materiale non trasferibile,
caricati sull'autocarro armi e munizioni, prelevati, quali ostaggi, un
ufficiale superiore e un sottufficiale tedeschi.
L'autocarro parte subito in direzione Bellinzago, ma
è costretto a fermarsi al passaggio a livello perché chiuso.
Sopraggiunge il treno carico di soldati tedeschi che, accortisi dei
partigiani, danno inizio alla sparatoria, sparatoria che diviene «infernale,
caotica» quando a dare man forte a quelli del treno arrivano
tedeschi e fascisti del presidio di Oleggio che passano al contrattacco. I
partigiani si buttano «nei fossi laterali della strada e soltanto
la perizia e il coraggio dell'autista può salvarli».
«L'autista, infatti, riesce a compiere la
difficile manovra di girare l'automezzo sotto il fuoco nemico e
ritornare verso Oleggio raccogliendo lungo la strada i partigiani..».
Forti le perdite del nemico; i partigiani perdono
quattro uomini: Paolo Alleva, nato nell'ottobre del 1920 a Fontaneto d'Agogna;
Rinaldo Bertolotti, nato nell'aprile del 1924 a Valpuiseaux (Francia);
Achille Porta 'Romeo', nato a S. Maurizio d'Opaglio nel 1922, che
vengono recuperati dai partigiani e portati a Borgosesia. Cade anche
Triestino Pagani, nato nell'ottobre del 1918 a Fontaneto d'Agogna,
trovato in un campo dai tedeschi. Dalla carta d'identità del partigiano
Pagani, i nazisti vengono a sapere che è di Fontaneto d'Agogna, i
nazisti prelevano venticinque ostaggi ivi compresi il padre e la sorella
di Triestino.
Il podestà e il parroco di Fontaneto, con il padre del
caduto, vengono inviati al comando garibaldino di Borgosesia, in missione:
il loro compito è quello di indurre il comandante partigiano a restituire
l'Ufficiale superiore e il sottufficiale nazista catturati nel corso
dell'azione di Oleggio, ben precisando che, in caso contrario, gli
ostaggi verranno fucilati e Fontaneto d'Agogna sarà dato alle fiamme.
Il Comandante partigiano non si fa intimorire dalle minacce naziste e,
avendo prigionieri numerosi ufficiali nazisti catturati nel corso di
precedenti azioni, risponde che qualora il Comando nazista avesse attuato
il piano criminoso, sarebbero stati passati immediatamente per le armi
tutti i nazisti prigionieri. La controproposta che viene accettata dal
Comando nazista è la seguente: scambio, a Borgosesia, dei due prigionieri
dell'azione del 23 giugno con 23 partigiani chiusi nel carcere di Novara
e rilascio di tutti gli ostaggi.
Lo scambio avviene a Borgosesia, nella piazza, dinanzi
alla popolazione. Nel contempo, ricorda il farmacista dottor Pio Cerutti
di Oleggio: «Dopo quel furibondo attacco, i tedeschi furentissimi,
al comando del capitano Blum, guidati dal Segretario Politico
repubblichino (il medico Giovacchino Petru, nativo della Corsica,
rifugiato ad Oleggio) per rappresaglia arrestano il Segretario Comunale
(Miglio) e un farmacista (Cerutti). I due vengono rinchiusi in una oscura
e stretta cella, arredata da un lurido tavolaccio e da un maleodorante
bugliolo. Minacce di morte! Vengono poi consegnati alla Autorità
repubblichina accorsa da Novara. Messi sotto giudizio da una piccola
congrega presieduta dal vice federale di Novara. Andrea Fortunato
(Pubblico Ministero nel processo di Verona del febbraio 1944), per l'intervento
dell'Autorità religiosa, di alcuni maggiorenti e, inoltre, per lo
scambio di ostaggi, vengono messi in libertà, a disposizione».
FUCILAZIONE A PONTE CASLETTO - Ponte Casletto, 24 giugno 1944
Caduti: Luigi Abbiati, Angelo Cristina.
Continua spietata la caccia all'uomo. I partigiani,
braccati, affamati, abbattuti dalla stanchezza e dallo sconforto per non
essere in grado di tenere testa a un nemico troppo superiore nel numero
degli uomini, dotato delle armi più moderne automatiche, leggere e
pesanti e di mezzi corazzati, appoggiato dell'intervento di aerei da
caccia, aiutato da cani addestrati alla ricerca dei ribelli, si muovono in
continuazione, spostandosi dall'una all'altra valle del Verbano e
della Bassa Ossola alla ricerca di un rifugio, di viveri, di momenti di
tregua. I nazifascisti hanno cambi regolari, i reparti si alternano alla
caccia dei ribelli e inoltre diciassettemila uomini (tanti sono impegnati
nel rastrellamento del giugno '44) possono investire le posizioni
partigiane nelle diverse valli.
I partigiani delle formazioni "Valdossola", "Giovine
Italia", "C. Battisti" e "G. Perotti" non si danno per vinti;
nonostante le perdite, la stanchezza e la fame, i partigiani resistono.
La zona di Rovegro, Ungiasca, Ponte Casletto è sempre
"calda". I partigiani Luigi Abbiati e Angelo Cristina, in pattuglia,
si trovano isolati dal loro reparto proprio in questa zona, nel corso del
rastrellamento; cadono nella rete del nemico e pur constatando di essere
circondati, respingono l'ordine di resa e oppongono al nemico accanita
resistenza; vengono catturati allorché rimangono senza munizioni. Quando
i partigiani vengono catturati con le armi in pugno, i nazisti usano la
procedura d'urgenza ed è condanna a morte.
L'anziano Luigi Abbiati nato a Brescia nel 1897 (
antifascista, comunista, già condannato al carcere fascista a 6 anni e al
confino 14 anni per attività clandestina), dinanzi al plotone d'esecuzione,
urla al nemico il proprio disprezzo. Poi i due coraggiosi partigiani,
guardando fieramente i loro assassini, offrono «il petto al piombo
nemico».
I NOVE FUCILATI DI BEURA - Beura Cardezza, 27 giugno 1944
Caduti: Guerrino Aini, Cesare Badella, Teresa Binda,
Francesco Femminis, Pierino Lamperti, Luigi Macchi, Otello Mapelli,
Bruno Paperini, Carlo Sacchi.
Fra i tanti giovani che scelgono la strada della lotta,
troviamo anche Gianni Soffaglio, diciottenne, di Suna di Verbania. Gianni
lascia la casa e la mamma e sale sui suoi monti per unirsi a tanti altri
giovani, per combattere oppressori e invasori. Sono i giorni del terribile
rastrellamento nazifascista; la mamma di Gianni, Teresa Binda,
quarantenne, sa che il figlio si trova in grande pericolo, nella zona di
Rovegro-Ponte Casletto; perseguitata dal dubbio e dall'ansia, non
sopporta di rimanere nella casa ormai vuota, senza figlio. (4)
Mamma Teresa corre a cercare il figlio, non vuole
fargli abbandonare la lotta, ma vuole stargli vicino, seguirlo, soffrire
con lui, lo trova e nonostante Gianni cerchi di convincerla a ritornare a
casa, mamma Teresa non se ne dà per inteso e riesce a persuadere sia il
figlio che i suoi compagni, che la sua presenza non sarà di peso. La vita
del partigiano è sempre dura ed è durissima quando si è braccati in
continuazione, quando anche la stanchezza e la fame, oltre che il nemico,
ricorrono appresso. Per mamma Teresa questa vita così dura, queste corse
per i sentieri in mezzo ai boschi, questo arrampicarsi lungo i canaloni,
fra le rocce, su verso le cime sempre più alte, senza soste se non quelle
per ricacciare indietro il nemico, non possono durare a lungo; sofferente,
distrutta dalle fatiche, è costretta a rinunciare al suo proposito e deve
ritornare alla sua casa.
Ricomincia la tortura dell'ansia, ma dura poco.
Dopo alcuni giorni la casa di mamma Teresa viene invasa dai briganti neri;
i fascisti vogliono che la donna dica dove è suo figlio, dove è il
reparto di Gianni, chi è il comandante. Mamma Teresa non parla, viene
picchiata ma non parla, viene portata a Verbania e rinchiusa nelle carceri,
non parla. Il 27 giugno, proprio dalle carceri di Verbania, parte un
autocarro carico di condannati a morte.
Tra i condannati vi è mamma Teresa; vi sono il
carabiniere-partigiano Cesare Badella, artigiano, l'operaio ventenne
Otello Mapelli che, pur claudicante, è un coraggioso gappista di Intra,
arrestato per la spiata di un fascista fatto prigioniero e lasciato libero
dai partigiani; vi sono ancora Guerrino Aini, Francesco Femminis, Pierino
Lamperti, Luigi Macchi, Bruno Passerini e Carlo Sacchi catturati durante
il rastrellamento iniziatosi nella prima decade di giugno. L'autocarro
con il carico dei condannati circondati dai militi e nazisti, è seguito
da un secondo autocarro carico di nazisti. I due autocarri corrono sulla
strada del Sempione e si fermano ai margini di un prato, fra Beura e
Cosasca. Scendono prima i nazisti del secondo autocarro, quindi vengono
fatti scendere i condannati seguiti dagli sgherri del primo autocarro. Le
vittime portano sul volto i segni della violenza. Mamma Teresa e otto
ragazzi coraggiosi, a cui le torture non hanno aperto bocca, sono ora l'uno
all'altro accanto, dinanzi ai loro boia.
Il plotone d'esecuzione, un ordine secco, il lugubre
canto del mitra.
Don Luigi Pellanda, venuto a conoscenza di quanto è
accaduto, si porta, in bicicletta, sul luogo dell'eccidio e ricorda: «mi
avvicino trepidante, tutto esala il dramma doloroso; l'erba calpestata,
grumi di sangue, manate di cervella e mosche avide e inconsce».
(5) .
Le vittime sono già allineate nella cappella del
Cimitero di Beura: «sotto le braccia di un'altra
vittima: il Crocifisso. La buona gente non ha potuto fissare quei volti
pallidi, quelle bocche aperte, quegli occhi enormemente sbarrati e fissi e
li ha tutti coperti con brancate di erba fresca. Li guarda ad uno ad uno,
sono tutti vestiti male e quasi scalzi, privi di documenti: ricordo una
donna piccolina con scarpette di stoffa, un giovane con capelli rossicci,
fini e ancora irti».
Hanno pagato il prezzo per la loro fede, per il loro
coraggio e il loro silenzio.
(4) la storia di Gianni Soffaglio e di
Teresa Binda viene raccontata da N. Chiovini in "Verbano, giugno
'44", 1966.
(5) da "L'Ossola nella tempesta" di
don Luigi Pellanda, Tip. Provera, Novara 1954.
"SERRATI FRA DUE PANCHE" - Strona, 27 giugno 1944
Caduti: Egidio Baldioli, Guido Camussi, Luca Ceresa,
Romolo Colli, Giuseppe Fortis, Giuseppe Nichini.
Massiola, piccolo paese nella valle Strona, dove i
fratelli Alfredo e Antonio Di Dio, inizialmente conosciute come i "fratelli
Diala", hanno dato vita, nel settembre del '43, ad una delle prime
bande partigiane, è sempre un nido di partigiani e, nel giugno del
'44, vi ha un suo punto d'appoggio il "Gruppo Patrioti Ossola".
Nella "Mariola bela", in questi ultimi giorni di
giugno, è in sosta il distaccamento comandato da Beniamino Carnelli, ten.
"Mimmo"; nei pressi del paese è accampato anche un altro distaccamento
del "Gruppo Patrioti Ossola", il distaccamento comandato dal cap. Guido
Camussi.
I due distaccamenti sono in attesa di un aviolancio
destinato alla formazione di Alfredo Di Dio "Marco". Sia per i fuochi
di segnalazione sia, soprattutto, per il recupero del materiale (armi,
munizioni, equipaggiamento ecc.) aviolanciato occorre, infatti l'impiego
di parecchi uomini.
Il 24 giugno i comandanti dei due distaccamenti vengono
informati che a giorni, verrà effettuato il lancio; al ten. "Mimmo" viene
assegnata la zona dell'Alpe Pero e al cap. Camussi la zona della Damasca,
sopra le due Quarne.
Il 25 giugno i nazifascisti danno il via a un nuovo
rastrellamento puntando su tre direttrici: la prima su Cesara e, quindi,
la Colma di Civiasco; la seconda sulle Quarne per proseguire verso la
Damasca; la terza colonna nazifascista si inoltra nella Valle Strona. La
radio ricetrasmittente del Mottarone comunica agli Alleati di rinviare di
alcuni giorni l'aviolancio, onde evitare che i bidoni contenenti il
materiale cadano nelle mani del nemico.
Tramite staffette, i comandanti dei due distaccamenti
vengono avvertiti tempestivamente di quanto sta avvenendo e ricevono l'ordine
di mantenersi in Valle Strona, ma di raggiungere gli alpeggi da cui si
può sconfinare nella Valle del Massone.
Il Cap. Camussi, che già si è portato nella zona del
lancio, rendendosi conto del pericolo che incombe e per evitare attacchi
di sorpresa al grosso del reparto, costituisce un nucleo di avanguardia di
cui si mette alla testa.
In effetti la previdente operazione del cap. Camussi
salva il grosso dall'imboscata, ma fa cadere nella rete del nemico i sei
della pattuglia d'avanguardia. Ricorda il ten. "Mimmo" che i sei
partigiani «dopo i rituali, terrificanti episodi di violenza, caricati
su una camionetta, legati, serrati fra due panche di legno, vengono
portati ad Omegna ed esposti perché la popolazione conosca i
banditi».
La condanna alla gogna non è sufficiente, deve seguire
la condanna a morte!
I sei partigiani vengono ricaricati sulla camionetta,
preceduta e seguita da altri automezzi carichi di militi e di nazisti, e
ritrasferiti in Valle Strona; la colonna si ferma nel capoluogo della
Valle.
La popolazione di Strona viene costretta a portarsi
nella piazzetta centrale per assistere all'eccidio. Raffiche di mitra
stroncano le vite del comandante Guido Camussi e dei coraggiosi componenti
la pattuglia partigiana: Egidio Baldioli, Luca Ceresa, Romolo Colli,
Giuseppe Fortis e Giuseppe Nichini.
CACCIA SPIETATA - Cresti di Montescheno, 27 giugno 1944
Caduto: Egidio Baccaglio
Da quando è scaduto l'ultimatum del 25 maggio,
ultimatum «ai ribelli, disertori e renitenti..» che, per
i fascisti, non ha sortito buon esito, sembra che il desiderio sia
diventato, per gli oppressori, ansia di vendetta, sfogo della rabbia per i
continui insuccessi alle ripetute chiamate alle armi. Già il 26 maggio,
con parole roboanti, le minacce di morte si rinnovano nei manifesti
fascisti. «Alla forza verrà contrapposta la forza.
Il pugno di ferro serrerà le sue dita. Tutti quei ribelli che continuano
la lotta contro la loro patria non hanno da aspettarsi che la morte».
I fascisti che scorrazzano nel Verbano scrivono sui
muri: «Leoni della montagna se non avete paura vi aspettiamo a
Fondotoce», dove i repubblichini sono rinchiusi nell'asilo
trasformato in bunker. La risposta dei partigiani del cap. "Mario" è
immediata. Nella notte del 29 maggio una pattuglia partigiana scende a
Fondotoce, supera il primo anello di difesa del bunker e, con una carica
di dinamite, fa saltare una parete del fortino. I repubblichini si fanno
catturare e ben quarantaquattro sono i prigionieri sono portati in
montagna.
Il 27 giugno mentre i garibaldini del Battaglionne
Fabbri, agli ordini di Ugo Scrittori "Mirko", riescono a sottrarsi all'accerchiamento
e si apprestano a contrattaccare, al Pianin viene catturato il garibaldino
Egidio Baccaglio, ventenne. Il giovane partigiano viene trascinato a
Cresti di Montescheno e fucilato.
CIVILI ASSASSINATI
Calanca Castiglione, 27 giugno 1944
Caduta: Candida Medar
Frazione Molini, 1º luglio 1944
Caduto: Piero Zanetti
Sulle montagne è rimasta ormai poca neve e solo sulle
cime più alte; i pastori sono negli alpeggi o al pascolo perché, anche
se c'è la guerra, questa è la loro vita e non possono disertare i
prati, abbandonare le mucche e le pecore, così come non si può non
tagliare l'erba, raccogliere il fieno, sono le risorse di cui si vive
nelle Valli dell'Ossola, nei piccoli paesi disseminati in Valle Anzasca,
in Valle Introna e nelle altre valli che affluiscono verso la larga valle
del Toce. I pastori sono fra i più validi alleati dei partigiani; dalle
rocce, da cui vigilano il bestiame al pascolo, scrutano ogni scorciatoia e,
comunque, ogni via breve che unisce i diversi luoghi della zona; quando
individuano colonne nemiche che si inoltrano nelle valli, danno l'allarme
ai gruppi partigiani accampati nei dintorni e agli abitanti dei paesi più
vicini.
Proprio le Valli Anzasca e Introna sanno quanto vale la
vigilanza dei pastori e di centinaia di valligiani, uomini e donne di ogni
età che, per lunghi mesi, sono soggette alle scorribande di barbari
feroci e assassini. Calanca Castiglione, uno dei paesi che si incontrano
salendo verso Macugnaga, in Valle Anzasca, un paese in cui l'agricoltura
e la pastorizia prevalgono ancora su altre occupazioni, è certamente un
paese che più di altri è vittima delle continue aggressioni nazifasciste.
E le aggressioni lasciano sempre il segno: saccheggi,
distruzioni, morti. Il 27 giugno del '44 vi è un ennesimo passaggio di
nazisti. Una coraggiosa valligiana, Candida Medar, affronta il comandante
del reparto nazista protestando per gli ingiustificati saccheggi a cui è
sottoposto il paese: viene assassinata.
Il 1º luglio, nel corso di uno dei soliti
rastrellamenti, viene trovato nell'ambulatorio del medico locale Pietro
Zanetti, colpevole solo di essere andato nello studio medico per farsi
visitare: lo Zanetti viene prelevato, bastonato, trascinato in frazione
Molini e fucilato.
|
CHI SIAMO
LA COSTITUZIONE della REPUBBLICA ITALIANA
|