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Comitato provinciale di Novara
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La lotta partigiana nel Novarese (attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)
Alcune date significative del mese di febbraio
VILLADOSSOLA - 9 febbraio 1944- I fascisti non vogliono essere meno feroci dei tedeschi
Caduto: Giuseppe Bianchetti
Il 9 febbraio 1944 venne fucilato nelle carceri di
Novara Giuseppe Bianchetti, di Villadossola. Questo tragico evento
costituiva l'epilogo di una lunga serie di eventi cominciati a
Villadossola l'8 novembre 1943, quando veniva ucciso in una sparatoria
il diciassettenne Silvio Baccaglio, a cui seguiva il 10 novembre l'uccisione,
con un mitragliamento aereo fra la popolazione, di quattro civili (Mario
Bosio, Giuseppe Dell'Orto, Olga Zanotti e Ines Zanotti).
L'11 novembre vennero fucilati a Pallanzeno sei
patrioti: Redimisto Fabbri, Giuseppe Preioni, Albino Valdrè, Luigi Rossi,
Italo Finotto, Andrea Comina.
Il 24 novembre i fascisti giunsero a Villadossola e
arrestarono Idilio Brandini, Romualdo Casadei, Rino Zanelli, Pilade
Bartolomeo, Novello Bianchi e Giuseppe Bianchetti.
I primi quattro furono condannati alla deportazione in
Germania. Novello Bianchi venne trasferito come il Bianchetti alle carceri
di Novara e fucilato per primo, il 23/12/1943.
L'ULTIMA LETTERA ALLA MAMMA DI NOVELLO BIANCHI FUCILATO A NOVARA IL 23 DICEMBRE 1943
Novara 23 dicembre 1943.
Cara mamma,
negli ultimi istanti della mia vita, il mio pensiero è
a te e a tutti i miei cari, io sono rassegnato alla mia sorte muoio
tranquillo con l'anima tesa verso Dio, nella speranza che egli mi
accolga nel suo regno.
Una sola cosa io voglio: che tu sia forte, e che sappia
sopportare questa grave sciagura che ti colpisce; devi sopravvivere a
tutto questo, e pregare per me.
Io dall'alto, nella certezza che Gesù mi accolga fra
i suoi fedeli, saprò guardarti e ti proteggerò, in attesa che tutto
questo dolore che ti colpisce così crudelmente vada diminuendo adagio,
adagio. Devi resistere a tutto ciò, e pensa che hai un altro figlio
lontano, " Gustavo", che da molti anni non vedi; sopporta tutto
serenamente e attendilo e dagli un bacio per me che fino all'ultimo
istante l'ho sempre ricordato.
Non voglio che si pianga per me, accusate il dolore ma
siate forti come lo sono io in questo terribile momento che per poco mi
separa dalla morte. Ripeto, sii forte e prega per me, e ti chiedo perdono
se in passato ti feci molto soffrire, andrò da Dio, anch'egli saprà
perdonarmi e di lassù verrò spesso a trovarti; il mio ultimo pensiero è
a te cara Mamma: ricordami sempre che io ti voglio tanto bene, sii forte e
coraggiosa, un tempo ci ritroveremo ancora; ti bacio tanto, tanto e col
pensiero unito al tuo ti dico; «Mamma addio, tuo figlio
Novello».
Bacio voi tutti che in questo momento mi venite alla
mente. Addio a tutti.
Colui che pregherà per voi.
Novello
Mamma conserva queste immagini e medaglie, baciale, che
io le ho baciate.
L'ULTIMA LETTERA AL FRATELLO DI GIUSEPPE BIANCHETTI
FUCILATO A NOVARA IL 9 FEBBRAIO 1944.
Novembre 9 Febbraio 1944
Caro fratello Giovanni,
scusami se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto
per me mi permetto ancora di inviarti questa mia ultima lettera. Non posso
nasconderti che fra mezz'ora sarò fucilato; però ti raccomando le mie
bambine di dar loro il migliore aiuto possibile. Come tu sai che siamo
cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine.
Ti auguro a te e tua famiglia ogni bene, accetta questo
mio ultimo saluto da tuo fratello.
Giuseppe
Di una cosa ancora ti disturbo; di venire a Novara a
prendere il mio cappotto e ciò che resta. Ciao Tuo fratello Giuseppe.
CAMERI - 11 febbraio 1945 - Irruzione nella trattoria
Caduto: Giuseppe Fregonzi
Le azioni di sabotaggio delle SAP e GAP nel capoluogo e
nei paesi intorno a Novara crescono in numero e in vigore con il passare
del tempo, nonostante le minacce e le azioni di rappresaglia nazifasciste.
Un dipendente comunale di Cameri, Tino Porazzi, annota
diligentemente gli atti di sabotaggio operati (ad esempio ai fili
telefonici) dai patrioti cameresi: settembre 1943, gennaio 1944 e poi
ancora il 21 giugno, il 4 luglio, il 19 agosto e il 20 dicembre del 1944,
ecc. Ricorda anche che, a seguito del sabotaggio del 19 agosto, il Comune
di Cameri viene penalizzato di ventimila lire e 1300 cittadini sono
precettati «per la sorveglianza alle linee telefoniche nelle ore
notturne, all'addiaccio».
Le pattuglie di ronda hanno l'ordine di "sparare
a vista" e ciò vuol dire, per la gran fifa, sparare ancor prima di
chiedere «chi va là» o di intimare «alto là».
11 febbraio 1945: una pattuglia tedesca entra nella
Trattoria Belvedere (via Marconi, angolo via Italia). Attorno ad un tavolo
vi sono alcune persone impegnate in una vivace discussione; fra queste
persone vi sono due giovani, il ventenne Giuseppe Fregonzi e il ventunenne
Angelo Ragni.
Visti i tedeschi, i due giovani tentano di filarsela
attraverso la porta carraia, ma vengono raggiunti da raffiche di mitra.
Giuseppe Fregonzi cade e muore qualche attimo dopo;
Angelo Ragni rimane gravemente ferito. Nella stessa serata due pattuglie
tedesche si scontrano per errore e rimane ucciso un sottufficiale. La
morte del "camerata" anche se è dovuta, per fatalità, alla fretta di
sparare e uccidere, un'insensata sparatoria fra due pattuglie naziste,
deve essere fatta pagare ai cameresi. A sera inoltrata vengono arrestati
una settantina di giovani che vengono trasportati all'aeroporto di
Cameri e rilasciati solo l'indomani in quanto dipendenti di enti
ausiliari.
MEGOLO - 13 Febbraio 1944 - Resistenza eroica
Caduti: Arch. Cap. Filippo Maria Beltrami - Avv. Cap.
Gianni Citterio (Redi) - Ten. Antonio Di Dio - Carlo Antibo -
Bassano Bassetto - Aldo Carletti - Angelo Clavena - Bartolomeo
Creola - Emilio Gorla - Paolo Marino - Gaspare Pajetta - Elio
Toninelli
Erano le 6.30 del 13 febbraio 1944. Dei reparti di SS
appoggiati da una compagnia della Guardia Nazionale Repubblichina, coperti
dalla fitta nebbia delle prime ore del mattino, nascosti gli automezzi in
un avvallamento a qualche centinaio di metri da Megolo, invasero la
piccola frazione del comune di Pieve Vergonte.
Prima facile preda del nemico furono Bassano Bassetto e
Bartolomeo Creola, colti nel sonno in una camera dell'Osteria del Remo.
I due partigiani riposavano in attesa che l'oste alle 7 li svegliasse
perché avrebbero dovuto raggiungere i distaccamenti dislocati in altre
località della valle.
Vennero trascinati alla presenza del cap. Simon,
comandante delle forze nazi-fasciste. Pur essendo frustati, bastonati e
torturati, i due giovanissimi partigiani rimasero nel più assoluto
silenzio e infine vennero consegnati ai militi. I fascisti ripresero la
bastonatura dei due ragazzi e quindi li fucilarono in una piazzetta a lato
dell'osteria.
Il capitano Beltrami, con calma e sicurezza, dispose i
suoi partigiani su una linea di circa 200 metri e quindi prese il proprio
posto di combattimento. Cinquantatré uomini con una mitragliatrice, due
mitragliatori, un mitra, e una cinquantina di moschetti erano pronti a
difendersi dall'attacco condotto da oltre cinquecento nazi-fascisti
armati di un cannoncino, due mortai, una mitragliera da 20 mm., tre
mitragliatrici pesanti, fucili mitragliatori e mitra.
Il Capitano aveva respinto per la seconda volta l'invito
alla resa del Comandante tedesco: con tutti i suoi partigiani, aveva
accettato il combattimento.
Alle 7 del 13 febbraio 1944, la nebbia era dispersa dai
raggi del sole che illuminava la valletta di Megolo. I partigiani, distesi
lungo la linea di difesa, assistevano immobili all'avanzata della
colonna tedesca, a al successivo disporsi per l'attacco delle forze
nemiche. I tedeschi avanzavano in tre linee, distanziate l'una dall'altra
di qualche metro: la GNR, rinforzata reparti di SS, avanzava sulle due
ali.
Era necessario attendere: l'esiguo numero di uomini e
la scarsa potenza di fuoco consigliavano di attendere che il nemico fosse
giunto a breve distanza. L'attesa era estenuante, snervante. Le SS erano
ad una trentina di metri dalla balza dietro cui era appostato il gruppetto
di comando. Il mitra del Capitano ruppe, con il suo crepitare, il silenzio
della valle. Tutte le armi della difesa risposero al richiamo e la prima
linea dell'avversario fu costretta a ripiegare in disordine lasciando sul
terreno alcune decine di morti.
Non vi furono soste nella battaglia; dall'una e dall'altra
parte si continuò con sempre maggior accanimento. Purtroppo, l'unica
arma pesante si inceppò e dovette essere abbandonata. Un colpo di mortaio
raggiunse la piazzola del mitragliatore all'ala sinistra della difesa,
uccidendo il servente al pezzo.
Alle 10, dai Presidi dell'Ossola giunsero rinforzi al
nemico: da quel momento la situazione volse a favore delle forze nazi-fasciste.
Nel tentativo di spostarsi verso il centro, il cap.
Citterio venne colpito da una raffica e abbattuto. Era una grave perdita:
Redi, uno dei valorosi della vecchia guardia di Beltrami, era un
coraggioso, un abile ufficiale e un prezioso consigliere del Capitano. La
scarsità di munizioni non permetteva di resistere a lungo e con scarse
possibilità di successo. Bisognava tentare una sortita e Beltrami
avvertì gli uomini di tenersi pronti. Approfittando di uno dei frequenti
avvicendamenti nella prima linea del nemico, diede l'ordine di
contrattaccare e i partigiani balzarono in avanti all'assalto. Sorpresi
dall'ardita azione di un pugno di uomini ormai decisi a tutto, la prima
linea nemica si ritirò disordinatamente, travolgendo e disorganizzando
anche le linee di rincalzo. La fuga nazi-fascista ebbe termine nell'abitato
di Megolo. Entrarono in azione i rinforzi sopraggiunti dal Nord; i
giovanissimi della "banda", lasciatisi trascinare dell'entusiasmo,
anziché retrocedere e prendere posizione su una nuova linea,
abbandonarono ogni prudenza e si spinsero allo scoperto fino alle prime
case, dove vennero falciati dalle raffiche delle mitragliatrici.
Caddero Antibo, Gorla, Clavena, Toninelli, Carletti.
Anche Marino venne abbattuto poco dopo da una raffica di mitra sulla
soglia di una casa.
Intanto il Capitano tentava di riorganizzare i propri
uomini su una nuova linea di difesa ma, ormai convinto di non poter
reggere ai nuovi attacchi, dava disposizione per evitare l'accerchiamento
e per operare un'azione di sganciamento, nel caso in cui la situazione
fosse ancora peggiorata. Mentre, ritto accanto ad un grosso castano,
osservava le posizioni, il Capitano venne colpito da una raffica al petto
e alla gola. Antonio e Gaspare gli furono subito accanto e tentarono di
trasportarlo in una baita che sorgeva sul pianoro a una trentina di metri
dal luogo in cui era stato ferito. Ma il Capitano, intuendo la sua
prossima fine, a cenni fece comprendere ai due giovani di ritirarsi prima
che fossero accerchiati dal nemico. La sua posizione venne individuata e
diventò un bersaglio sicuro: un colpo di mortaio troncò ad un tempo la
vita di Beltrami, Di Dio e Pajetta. Dopo quattro ore di combattimento
accanito, al termine delle munizioni, senza la guida del loro Capitano, i
superstiti furono costretti a ripiegare e disperdersi fra le rocce e nella
boscaglia, cercando poi di raggiungere gli altri distaccamenti.
Ultimo atto della tragedia: un fascista, raggiunto il
Capitano, infierì ripetutamente con il pugnale sul corpo esanime.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il
valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell'eroico comandante
partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS. Era
infatti caduto combattendo, alla testa dei suoi ragazzi, un uomo le cui
epiche gesta avevano attirato l'attenzione non solo del popolo e del
nemico nella nostra provincia, ma di tutta l'Italia occupata e dal
Comando supremo nazista.
GRIGNASCO Cà di Negri - 28 febbraio 1944 - Caccia al ribelle
Caduti: Giovanni Camana, Domenico Federico
Anche la Valsesia è sottoposta alle continue
scorribande nazifasciste. In particolare, le cittadine e i paesi che si
incontrano percorrendo la provinciale nel tratto Romagnano Sesia -
Quarona e la statale 299 nel tratto Serravalle-Borgosesia sono costrette
a subire gli arbitrii e le violenze degli aggressori tedeschi e dei
legionari repubblichini.
Il 28 febbraio cade la neve sulle colline e la
pattuglia dell'Osella scende dalla Colma di Valduggia per raggiungere
Gargallo, dove deve prelevare uno stock di scarpe, una merce preziosa per
i compagni che sono in montagna. Con fatica, arriva a Cavallirio, dove sa
di poter contare su amici che possono procurarle un camioncino.
Sono cinque ragazzi: Giovanni Camana, Aldo De Paoli,
Vittorio Pizzolotto, Domenico Federico e il "Negru" di Coggiola. I
cinque giovani dell'Osella, in possesso del camioncino, arrivano a
Gargallo, prelevano dal calzaturificio la merce necessaria e, quindi,
riprendono il cammino per rientrare alla base.
Lungo il percorso, il camioncino viene avvistato da una
pattuglia motorizzata tedesca e viene raggiunto da una nutrita scarica di
mitra; la pattuglia partigiana riesce a defilarsi e a fare perdere,
temporaneamente, le proprie tracce. I cinque partigiani, che non si sono
concessi finora un momento di riposo e che sono intirizziti dal freddo,
ritenendo di aver seminato definitivamente gli inseguitori, decidono di
fare una sosta in un cascinale: è quello del "Vignol", tra Ca'
Marietta e Ca' di Negri, in territorio di Grignasco.
Qui i partigiani vengono sorpresi dalla pattuglia
nemica; non si arrendono e rispondono immediatamente al fuoco, decisi a
battersi fino al limite del possibile. Nello scontro lasciano la vita
Giovanni Camana di Prato Sesia e Domenico Federico, detto Mimmo, di
Grignasco. Gli altri tre, arrampicandosi lungo un canalone che passa
dietro il cascinale, riescono ancora una volta a sfuggire sia alla morte
che alla cattura.
I tedeschi non danno sepoltura ai due partigiani
uccisi. L'indomani i corpi dei due caduti vengono ritrovati sotto la
neve dai compagni di lotta,.
Questo episodio è ricordato dal partigiano Italo
Rolando, sindaco di Prato Sesia. La testimonianza è del superstite Aldo
De Paoli, di Grignasco.
PROVINCIA DI NOVARA - Scioperi patriottici
Le rivendicazioni (richiesta di aumenti salariali
contro il carovita, di maggiori assegnazioni di generi alimentari, di
mense per i lavoratori, di gomme per biciclette, di carbone, di legna,
ecc.) che furono motivo degli scioperi dell'autunno del 1943,
continuarono anche nell'anno successivo: in gennaio e febbraio del '44,
in marzo con un grande sciopero generale e ancora in aprile e maggio.
Anche gli operai novaresi scesero in lotta a fianco dei
lavoratori del triangolo industriale Torino - Milano - Genova.
Dalle stesse fonti fasciste abbiamo elenchi e rapporti,
certamente incompleti, degli scioperi o, come scrivono i repubblichini,
delle "astensioni" verificatesi in provincia di Novara. Risulta
evidente che i più elevati indici di astensione dal lavoro si ebbero dove
erano più numerosi gli stabilimenti industriali e nei maggiori centri
della provincia (Novara, Borgomanero, Omegna, Gravellona, Verbania,
Villadossola, Trecate, ecc.) È opportuno tener presente che, in generale,
questi centri erano sede di presidi nazi-fascisti.
Ogni volta che i partigiani scendevano in pianura e
occupavano per un'azione dimostrativa una città o un paese (come
avvenne a Omegna, Crusinallo, Casale Corte Cerro), i lavoratori e gli
studenti abbandonavano spontaneamente il posto di lavoro e la scuola e si
riversavano nelle piazze, per raccogliersi attorno ai partigiani e
aiutarli a prelevare armi e munizioni dagli stabilimenti che producevano
materiale bellico.
CARCEGNA DI MIASINO - 14 febbraio 1945 - "E' morto mio fratello"
Caduto: Aldo Oliva
Verso la fine di ottobre '44, a Gignese, si
ritrovarono, finalmente, i fratelli Aldo e Elsa Oliva, ossolani, di famiglia
operaia, socialista e, naturalmente, antifascista. I due fratelli erano
saliti in montagna in tempi differenti e avevano militato in formazioni
partigiane diverse, ma sempre operanti nell'Alto Novarese: Aldo, detto
"Ridolini", faceva parte della brigata "Franco Abrami" della
divisione "Valtoce"; Elsa era partigiana della II brigata della
divisione "Beltrami".
La "Franco Abrami" operava prevalentemente
nella zona del Mottarone, mentre il territorio di lotta della
"Beltrami" era la Valstrona e la sponda occidentale del Cusio,
fino alle porte dell'Ossola.
Elsa decide di combattere assieme ad Aldo e lascia, a
malincuore, il comandante Sabatino Meloni della "Beltrami" per
unirsi ai partigiani della brigata "Franco Abrami".
"Ridolini" era un giovane coraggioso e attivissimo:
prediligeva le azioni condotte singolarmente, ma lo si trovava sovente
alla testa di pattuglie che attaccavano i posti di blocco, le camionette
cariche di tedeschi o di fascisti, un treno blindato. "Ridolini"
sapeva rendersi utile in ogni occasione, perché al coraggio univa l'astuzia
e la prontezza necessarie nella guerriglia, mentre nei periodi di sosta
sapeva tenere allegri i compagni con storielle buffe.
Il nemico lo cercava e gli dava la caccia; ancora una
volta, nel corso del rastrellamento che investì i due versanti del
Mottarone, "Ridolini" riuscì a giocare il nemico, ad attaccarlo e a
procurargli perdite, cogliendo poi il momento opportuno per eclissarsi con
i suoi uomini.
Aldo Oliva era instancabile e superò le mille insidie
della guerriglia fino al febbraio 1945, quando fu costretto a rifugiarsi,
dopo essersi sottratto per l'ennesima volta alla cattura, in una casa di
Carcegna, una piccola e bella frazione di Miasino.
Al tramonto del 14 febbraio, Aldo, rassicurato dal
silenzio che circondava la casa, lasciò gli amici che lo avevano ospitato
per raggiungere il Circolo Operaio della piccola frazione, con la speranza
di poter cogliere informazioni sui movimenti del nemico. Ma i fascisti non
si erano allontanati dalla borgata.
«Il nemico, tante volte beffato, lo coglie
incidentalmente, a Carcegna, con una scarica di mitra non preceduta da
alcuna intimazione di alt. L'indomani due staffette di Carcegna
raggiungono Gignese». ricorda Elsa «Con voce supplichevole
domando: dov'è mio fratello? Mi guardano con quella strana aria,
poi una di esse, con un filo di voce, mi annuncia: E' morto, lo hanno
ucciso i fascisti ieri sera, davanti alla chiesa di Carcegna. Rimango
come paralizzata. Le mie labbra si muovono e ripetono come un ritornello:
è morto mio fratello, è morto mio fratello».
FONDOTOCE - 18 febbraio 1945 - Assassinio davanti alle scuole
Caduto: Bruno Bisi
Gli "squadristi del 43" furono tra i
nemici più feroci: al contrario di molti opportunisti che, dopo aver
servito fedelmente la Repubblica di Salò, si presentavano ai gruppi
partigiani giurando di essere stati sempre antifascisti, questi squadristi
perseveravano nella caccia ai partigiani e nelle azioni di distruzione e
di morte. La loro volontà di torturare, seviziare, uccidere era tale che
sembrava di trovarsi di fronte dei veri killer, dei professionisti del
delitto.
Nelle prime ore del mattino, l'operaio Bruno Bisi, di
36 anni, scendeva in bicicletta, come ogni giorno, da Bieno di San
Bernardino Verbano a Fondotoce per recarsi al lavoro. Era un giovane
allegro e anche quella mattina stava fischiettando. Il Bisi, sereno,
raggiunse la piazzetta di Fondotoce e, proprio ai piedi della scalinata
dell'edificio scolastico, venne investito da una raffica di mitra.
Questo drammatico episodio è stato un assassinio in
piena regola, un delitto efferato e raccapricciante, attuato senza la
minima giustificazione.
BIUSE DI OLZENO - 21 febbraio 1945 - Posto 24 e Posto 24 Bis
Caduti: Mario Gramoni ("Dieci"), Dante Sardi ("Dario")
Il Verbano e la Valle Cannobina subirono, nel corso
della lotta armata di liberazione, ben quattro rastrellamenti che lasciano
il segno; nel febbraio, nel giugno, nell'ottobre del 1944 e nel gennaio-
febbraio del 1945. Nel corso dei venti mesi di Resistenza, i nazifascisti
non si limitarono però ai massicci rastrellamenti, ma compirono numerose
scorribande nella vasta zona ai confini della Svizzera.
Lentamente, nei mesi di novembre, dicembre e gennaio
vennero ricostruite le squadre. Sulla collina di Ascona (Svizzera), la
"Battisti" organizzò il Posto 24 in una villetta affittata come
appoggio ai partigiani che, fuggiti dai campi di internamento svizzeri,
accorrevano in patria per combattere nuovamente contro i nazi-fascisti.
Successivamente, a Crealla, in Val Cannobina, venne
stabilito il Posto 24 bis a potenziamento della rete di smistamento. Per
difendere questa importante via di accesso, che si rivelò utilissima
anche al Comando Zona Ossola di recente costituzione, il comandante Arca
distaccò alle Biuse di Olzeno una squadra della "Battisti"
formata da 12 uomini e comandata da Mario Gramoni ("Dieci").
A metà febbraio la zona era fortemente innevata: 50-60
centimetri di neve alle Biuse e alla Quadra, oltre un metro ai "Tre
confini" e al passo del Limidario. Le corvée in queste condizioni erano
faticosissime; in queste precarie condizioni il punto di riferimento più
vicino, situato a Gurrone, era raggiungibile in oltre 4 ore di marcia.
Nella giornata del 21 febbraio 1945, in una impari
battaglia la squadra venne accerchiata da 150 uomini. "Dieci", "Dario"
e Beppe (nipote di "Dieci", detto il "Principino") approfittarono
di una tregua per uscire, ma alcuni militi che provenivano dal sentiero
della Quadra aprirono il fuoco e tutti e tre i partigiani vennero feriti.
"Dario", colpito alle gambe, cadde tra le due baite, "Dieci",
colpito al ventre, volle a tutti i costi fermarsi per proteggere i suoi
ragazzi, ma questi lo trascinarono verso il pendio e con una corsa
affannosa riuscirono a portarlo nel bosco sottostante. "Dario" rimasto
a terra ferito, raggiunto dai confinari, fu barbaramente trucidato; il "Principino",
ferito a un braccio, venne fatto prigioniero.
Dopo tre giorni, Mario Gramoni fu trovato morto, la
mano stretta attorno alla sua pistola puntata alla tempia.
DOMODOSSOLA - 23 febbraio 1945 - Il Comandante Emilio
Caduto: Emilio Murciano
Nato nel 1920 a Druogno, in Val Vigezzo, ancora bambino
si trasferì con la famiglia a Galliate. Diplomato alle magistrali e
iscritto all'Università Statale di Milano, riuscì a procurarsi un
incarico come insegnante alle scuole elementari di Galliate.
Chiamato alle armi, frequentò il corso allievi
ufficiali a Spoleto. Ufficiale di prima nomina, Murciano venne destinato
all'81° Fanteria, di stanza a Roma e vi rimase fino all'8 settembre.
Rientrato a Galliate, Murciano, nel novembre 1943, conseguì la laurea in
giurisprudenza e iniziò il tirocinio presso uno studio legale di Novara.
Nel maggio '44, poco prima che scadessero i termini
fissati dalla Repubblica di Salò per presentarsi alle armi senza
incorrere nelle terribili sanzioni, Emilio Murciano lasciò la famiglia,
lavoro ed amici e il 22 maggio 1944 raggiunse sui monti i partigiani di
Alfredo Di Dio.
Qualche giorno dopo, Murciano si unì ad alcuni vecchi
amici che aveva ritrovato fra i garibaldini della "X Rocco",
brigata della divisione "Redi". Ben presto le sue doti emersero
e venne nominato comandante di distaccamento. Il brillante comportamento
tenuto nella battaglia del Massone (nei primi giorni di agosto '44)
persuasero il Comando garibaldino della "X Rocco" ad affidargli
il comando del 2° battaglione "L.Comoli".
Nel corso della battaglia di Gravellona Toce, il
Comandante Emilio rimase gravemente ferito alla testa; fu catturato e
ricoverato, con speciale sorveglianza, all'ospedale di Omegna. Il
personale dell'Ospedale del capoluogo del Cusio era, in gran parte,
collaboratore dei partigiani, e, quindi, la permanenza del Comandante
Emilio e di altri partigiani ricoverati fu assai breve. Un commando
partigiano, con azione a sorpresa, in accordo con il personale
ospedaliero, prelevò Emilio e gli altri partigiani ricoverati e, con una
barca, li trasferì sulla sponda opposta del lago d'Orta, dove vennero
sistemati presso le famiglie amiche o ricoverati in un ospedaletto da
campo.
Non appena il Comandante Emilio si sentì in forze,
riprese il suo posto di lotta al comando del battaglione "Comoli",
per venire poi nominato Comandante di Brigata.
Il Comandante Emilio era instancabile: con azioni
quotidiane, cercava il nemico, lo attaccava, lo metteva in fuga. Andò
fino a Pettenasco per un attacco al posto di blocco, a cui subito seguì l'assalto
di treni blindati e di presidi nella Bassa Valle Ossola.
Proprio nel corso dell'assalto ad un treno blindato
nei pressi di Vogogna, nella notte fra il 2 e il 3 febbraio del 45, il
Comandante Emilio venne ferito gravemente e ricoverato all'Ospedale S.
Biagio di Domodossola in condizioni disperate.
Il coraggioso, intrepido Comandante Emilio morì il 23
febbraio 1945, lasciando un grande vuoto nelle fila partigiane.
BORGOMANERO - 23 febbraio 1945 - Massacrati
Caduti: Ernesto Mora - Ezio Gibin
VFra le unità garibaldine che operavano nel Medio
Novarese e che, sovente, portavano le loro azioni anche nel capoluogo di
questa zona, Borgomanero, c'era la "Volante Loss".
Il comando della "Loss" affidò ai garibaldini Mora e
Gibin il compito di catturare Roncarolo, un piccolo gerarca che godeva a
Borgomanero e nel circondario della fama di torturatore di partigiani.
Ezio Gibin, nato nel 1926 ad Ariano Polesine (Rovigo), ed Ernesto Mora,
nato a Borgomanero nel 1924, erano due giovani che si erano distinti in
azioni difficili e che conoscevano bene la città, il Roncarolo e le sue
abitudini. Roncarolo era infatti solito andare nelle ultime ore
antimeridiane all'ospedale SS Trinità e, proprio nei pressi dell'ospedale,
si appostarono Mora e Gibin in divisa di militi della "Folgore",
il 23 febbraio 1945.
Poco dopo le undici il Roncarolo si fece vivo, scortato
da un brigadiere della GNR e da un ragazzotto, Maffei, di Borgomanero. In
un batter d'occhio i tre fascisti vennero fermati e disarmati: il
ragazzino tremava come una foglia e i due garibaldini, con un intempestivo
atto di generosità, dopo avergli dato una buona strigliata, lo lasciarono
senza pensare alle conseguenze. Il fascistello liberato, infatti,
imbattendosi in una pattuglia della "Folgore", denunciò quanto
era avvenuto poco prima nei pressi dell'ospedale.
La caccia ebbe inizio; i garibaldini e i loro
prigionieri vennero avvistati ai confini di Borgomanero. I fascisti
spararono ed ricevettero immediata risposta dai due coraggiosi partigiani.
Lo scontro si prolungò per circa mezz'ora: due garibaldini contro una
nutrita pattuglia di paracadutisti. Durante la sparatoria i due
prigionieri riuscirono a sfuggire alla sorveglianza dei garibaldini e a
unirsi ai loro camerati. Mora e Gibin nella sparatoria vennero feriti e,
mentre Mora tentava di portare Gibin all'ospedale, sopraggiunsero il
capitano Roncarolo e i paracadutisti della "Folgore".
Mora rispose al fuoco nemico ma, ben presto, ferito e
senza munizioni, fu costretto ad arrendersi. Gibin venne ricoverato all'ospedale;
Mora fu subito sottoposto a tortura perché volevano costringerlo a
indicare dove si trovava la sua formazione e da quanti uomini era
composta. Mora tacque e non tradì i suoi compagni, anche se venne
violentemente bastonato. Poi il coraggioso Mora venne spinto e trascinato
per le strade di Borgomanero, il volto tumefatto, tutto il corpo
sanguinante per le legnate e le fustigate. I fascisti volevano che la
popolazione vedesse quale sorte veniva riservata ai "ribelli", a
chi combatteva contro la Repubblica di Salò. Un gruppo di donne, di
fronte allo spettacolo inumano, bestiale, a cui i fascisti le costrinsero
ad assistere, non seppero nascondere il loro sdegno.
Nel vicino paese di Cressa, il presidio nazifascista al
Mulino Saini, tenuto da qualche giorno in allarme da reparti garibaldini
della "Pizio Greta", venne rinforzato da un nuovo reparto
repubblichino al comando del col. Festi.
Il nuovo comandante mandò a Borgomanero un automezzo
su cui dovevano essere caricati, per essere trasferiti a Cressa, i due
partigiani rinchiusi nelle loro carceri. Roncarolo andò all'ospedale e
prelevò Gibin, nonostante il parere contrario del chirurgo che l'aveva
operato, dichiarando di aver ricevuto l'ordine di portare il garibaldino
diciassettenne a Novara. Poi al carcere prelevò anche Ernesto Mora.
Durante il percorso Borgomanero-Cressa i due partigiani furono nuovamente
percossi e al giovane Gibin venne spezzato, con il calcio del mitra, il
gesso applicato alla gamba appena operata.
Alessandro Bertona, uno dei civili rastrellati dal
Festi e costretti ad assistere all'eccidio, testimonia:
«Io ho la sventura di essere testimone al massacro
dei due giovani eroi. Gettati dal camion, come fossero sacchi, i carnefici
si avventavano con pugni, pedate e calci di moschetto sui corpi dei due
partigiani. E' una gara oscena, selvaggia, a chi picchia di più e più
forte. Il calcio di un moschetto si spezza colpendo la gamba martoriata di
Gibin. Mora cade al fianco del compagno, con il volto sfigurato anche in
conseguenza di un pugno assestatogli da un ufficiale fascista che gli
vomita in viso: Va ora a chiamare la tua "Volante Loss". Non un
lamento esce dalle labbra dei due ragazzi. Infine sono trasportati di peso
all'esterno del muro di cinta e nuovamente torturati».
Ezio Gibin muore tra atroci sofferenze. Ernesto Mora è
costretto ancora a vedere le cose inaudite, terribili, atroci che i
fascisti fanno sul cadavere del compagno: i fascisti si lanciano sul corpo
inanimato di Gibin, con colpi di tallone gli schiacciano l'occhio
sinistro, con un pugnale gli strappano l'occhio destro ed ancora gli
squarciano il petto per strappare il cuore.
«Viva l'Italia libera e viva i partigiani!»,
trova ancora la forza di gridare Ernesto Mora, prima di morire.
La testimonianza di Alessandro Bertona termina con il
ricordo di un'ultima atrocità: «A Mora vengono strappati gli
occhi».
TRAREGO VIGGIONA - 25 febbraio 1945 - "Dei repubblichini siam la disperazione"
Caduti: Pierino Agrati, Ivo Borella, Corrado Ferrari,
Ermanno Giardini, Luigi Leschiera, Gastone Lubatti, Luigi Velati, Aldo
Brusa, Primo Carmine
La "Volante Cucciolo" operava nel Verbano ed
era un reparto della brigata "C. Battisti"; si trattava di una
piccola unità combattente, composta da una decina di uomini, senza una
base fissa, sempre in movimento alla ricerca di posti di blocco e di
pattuglie nemiche da attaccare in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Erano allegri i ragazzi della "Volante" e sovente cantavano
canzonette anche di loro invenzione; partivano, cantando, per le loro
azioni, colpivano il nemico e se ne andavano cantando:
«Eccoci qua, noi siam della "Volante",
della "Battisti" siam la più bella formazione
e dei repubblichini siam la disperazione».
Gli altri reparti della "Battisti" accolsero
quelli della "Cucciolo" con grande simpatia perché sapevano
infondere fiducia e coraggio e portavano allegria, ma sapevano anche fare
sul serio.
I compagni che li ospitarono il 25 febbraio ricordano
che, non appena fuori dalla baita, i nove ragazzi della
"Cucciolo" ripresero a cantare. In località Promè di Trarego,
i partigiani della "Cucciolo" si accorsero di essere circondati
dai fascisti. Il partigiano Nino Chiovini ("Peppo"), che comandava la
"Cucciolo", ricorda: «Siamo allo scoperto, nella
neve, tra gli alberi spogli. Scendono verso sera, sono dappertutto. Si
tratta di un centinaio di militi della brigata nera, comandati dal cap.
Mario Misi della "Confinaria"».
«Abbiamo cercato di sfondare», continua Chiovini, «
ma di nove ci siamo salvati in due, Carluccio Castiglioni ed io che mi
sono gettato dentro un fosso e sono rimasto in acqua un'ora e
mezza». E ancora: «Tre sono colpiti a morte; altri
quattro gravemente feriti, dopo avere tenuto un fiero contegno... vengono
selvaggiamente uccisi».
Cadono così Pierino Agrati di 24 anni, Ivo Borella di
26 anni, Corrado Ferrari di 24 anni, Luigi Leschiera di 24 anni, tutti
operai, e ancora Gastone Lubatti di 19 anni e Luigi Velati di 21 anni,
studenti, infine Ermanno Giardini.
Sempre in località Promè di Trarego, i militi della
brigata nera catturano due civili che si trovano in zona; si tratta di
Aldo Brusa di 29 anni e Primo Carmine di 34 anni, che vengono fucilati sul
posto.
Amelia Maccarinelli, la coraggiosa madre dello studente
Gastone Lubatti ricorda: «Il 25 febbraio del '45 qualcuno dice a
mia figlia Giuliana che lavora in banca: la "Volante" è partita, non si sa
che fine ha fatto». e continua: «Tutti presenti,
allineati e freddi, nel cimitero di Trarego, li ritroviamo, sette più due
civili, al cimitero, già ricomposti dalle suore, perché sono stati
riempiti di pallottole, 438 pallottole e poi seviziati».
La gente del luogo dice: «La morte ha fissato
sui loro volti, trasfigurati dalle sevizie, un sorriso che sembra non
debba venire meno».
CESARA - 25 febbraio 1945 - Ma il "grosso" è in salvo
Caduti: Pietro Marino, Luigi Tagini, Luigi Villa, Churtsidze (Ivan l'ucraino')
Cesara è un piccolo, ridente paese situato sulle
sponde del lago d'Orta, a sette chilometri dalla provinciale che unisce
il capoluogo cusiano a Gozzano; è dominato dalla parrocchiale di
S.Clemente con campanile romanico.
I partigiani trovarono ospitalità nella piccola
borgata: in particolare quelli della "Beltrami", della
"Redi" e della "Valtoce" erano di casa e avevano la
certezza di essere sempre ben accolti dalla popolazione.
All'alba del 25 febbraio, sebbene la primavera fosse
vicina, l'aria era frizzante; lo sapevano le sentinelle del "Bariselli",
un battaglione della brigata "X Rocco" della II divisione
"Redi", che non riuscivano a scaldarsi. Ma era comunque
necessario stare ben svegli per evitare brutte sorprese, perché i
rastrellamenti erano all'ordine del giorno. Venne dato l'allarme:
mentre ai margini del paese si organizzava la difesa con tutti gli uomini
armati, i partigiani disarmati, i nuovi arrivati, venivano guidati nella
boscaglia, nella parte alta del paese verso monte Piogera. Perché i
disarmati potessero raggiungere la boscaglia e defilarsi, gli armati
fecero convergere il fuoco sul reparto tedesco più vicino, costretto, per
la sorpresa e la massa di fuoco, a ritirarsi precipitosamente.
La battaglia continuò fra le case, nelle strette
strade della borgata, e il nemico piazzò una mitragliatrice da 20 mm. sul
campanile. I "vecchi" del glorioso battaglione si batterono con
sorprendente slancio, creando vuoti nelle fila nemiche.
Pietro Marino, detto "Marco" e Aurelio Fiorenzuola,
detto "Fulmine", si buttarono in un fossetto che correva lungo la
strada, ma "Marco" rimase ferito mortalmente al capo e morì nelle
braccia di "Fulmine", che qualche istante dopo venne ferito a una
gamba. Bruno Menegatti ("Alfredo") intervenne coraggiosamente e aiutò
il compagno ferito a raggiungere una casa dove gli prestarono le prime
cure.
Luigi Villa, detto "Louis", eIvan "l'ucraino"
restarono quindi imbottigliati in una stradetta del paese: presi fra due
fuochi, caddero crivellati da numerosissimi colpi di mitra.
Fu infine la volta di Luigi Tagini, ("Tagin"), che
venne abbattuto da una raffica di mitra mentre era in corso l'operazione
di sganciamento.
Il "grosso" del battaglione riuscì a raggiungere i
boschi; in paese, a protezione della ritirata, rimasero due squadre:
quella di "Alfredo" che, quando ritenne giunto il momento di
dileguarsi, scese verso Nonio e scomparve alla vista del nemico; quella di
Paolo Torlone, detto "Blecck", che resistette finché non vennero a
mancare le munizioni e fu costretta ad arrendersi.
I prigionieri vennero trasportati nelle carceri naziste
di Baveno, un'anticamera della morte. Paolo Torlone, Severino
Gobbi ("Tetta"), furono fucilati il 24 marzo 1945 con altri 8
partigiani a Solcio di Lesa.
CASTIGLIONE D'OSSOLA - 26 febbraio 1945 - Il parroco di montagna
Caduto: don Giuseppe Rossi
Il comune è costituito da due nuclei urbani, Calasca e
Castiglione e conta poco più di mille anime; Castiglione è il primo dei
due nuclei che si incontra risalendo la valle Anzasca, sulla sponda nord
del torrente Anza.
Nel 1938, il 30 ottobre, aveva fatto il suo ingresso
nella parrocchia di S. Gottardo il nuovo parroco, don Giuseppe Rossi, nato
a Varallo Pombia. Mons. Lodigiani ricorda che don Giuseppe, il giorno in
cui prese possesso della parrocchia, salì sul pulpito e, rivolto alla sua
nuova "famiglia", si presentò così: «Darò tutto
quello che ho, anzi darò tutto me stesso per le vostre anime».
Dall'ottobre 1944, furono tali e tanti gli attacchi
delle formazioni partigiane ai presidi nazifascisti in Valle Anzasca che
il nemico venne costretto a raddoppiare i reparti e a dare loro il cambio
con maggiore frequenza.
Il 26 febbraio 1945, proprio in occasione di un cambio
ai presidi di Calasca e di Pestarena, i partigiani di Domenico Pizzi
("Moro"), della formazione garibaldina "Redi",
attaccarono due plotoni della II Compagnia della brigata nera
"Ravenna-Corrao", in località Vallone di Casa Paita. I
partigiani non ebbero perdite e riuscirono ad allontanarsi prima del
sopraggiungere di rinforzi al nemico; i fascisti ebbero invece due morti e
14 feriti.
I fascisti, come era loro consuetudine, ricorsero alla
rappresaglia, modo semplice ma vile di sfogare la propria rabbia.
I rinforzi arrivarono sul luogo dello scontro quando
tutto era finito; raggiunsero quindi Calasca e Castiglione, dove si
diedero al saccheggio, incendiando numerose abitazioni e prelevando come
ostaggi una quarantina di persone; fra queste anche don Giuseppe, parroco
di Castiglione. Gli ostaggi vennero riuniti in piazza per essere
interrogati. Don Giuseppe fu accusato di avere suonato le campane per
avvertire i partigiani dell'arrivo della colonna nera, ma il parroco
ribatté che l'orologio del campanile aveva solo suonato le ore.
L'interrogatorio di don Giuseppe terminò solo dopo
diverse ore, alle 18; il parroco venne rilasciato dopo essere stato
minacciato di morte. Molti amici corsero da don Giuseppe per suggerirgli
di allontanarsi dal paese almeno per un certo periodo. Ma, ricorda ancora
mons. Lodigiani, il giovane parroco rispose a tutti: «Perché
fuggire? Mi sento tranquillo in coscienza, il mio dovere di pastore, di
parroco è di rimanere qui, tra voi che potete avere molte
necessità».
Alle 18 e trenta quattro militi si presentarono in
parrocchia per imporre a don Giuseppe di seguirli: don Giuseppe viene
accompagnato al comando della brigata nera.
Alcuni parrocchiani lo videro entrare al comando e, da
quel momento, don Giuseppe scomparve.
Dopo qualche ora, la sorella del parroco, Maria, si
recò al comando fascista per sapere quando don Giuseppe sarebbe stato
rilasciato, ma i fascisti si dimostrarono stupiti e dichiararono che il
parroco era stato rilasciato da tempo.
Alcuni giorni dopo, sui muri di Castiglione e di
Calasca venne affisso dai fascisti un manifesto in cui si leggeva: «Questo
Comando si unisce al Paese tutto nel sincero rimpianto per la scomparsa
del parroco di Castiglione, reputato persona onesta ed animato da puri
sentimenti di italianità. Si dichiara pertanto che alle ricerche iniziate
per trovare i colpevoli della morte dei nostri camerati, si aggiungeranno
quelle per la ricerca dei responsabili della scomparsa del vostro
parroco».
Il 3 marzo, una giovane del paese, Anna Piffero,
ricevette la confidenza di un milite della "Corrao"; il milite
rivelò il luogo dove don Giuseppe era stato trucidato. Per evitare gravi
conseguenze al milite-confidente, venne fatta correre la voce che una
ragazza di Castiglione aveva visto in sogno il corpo del parroco in fondo
ad un burrone.
La popolazione organizzò la ricerca e il corpo di don
Giuseppe venne ritrovato in frazione Colombetti «sepolto ai piedi
di una roccia, vicino alle rovine di un antico mulino, coperto con sassi,
muschio, rami. Ha la fronte e la testa spaccata, sfondata. Sul corpo
crivellato di pallottole sono evidenti segni di dure percosse: ha il
braccio destro spaccato, le mani sono tutte graffiate. Sepolto, gli hanno
ancora collocato una pesante pietra sulla testa».
Don Giuseppe Rossi, il parroco trentaduenne di
Castiglione d'Ossola, era quindi stato barbaramente trucidato da
fascisti che, per colmo di vigliaccheria, rifiutarono anche di assumere la
responsabilità dell'assassinio.
Qualche giorno dopo (il 7 marzo), in una frazione di
Castiglione d'Ossola, i fascisti catturarono il partigiano Martino
Panighetti: lo torturarono, lo seviziarono, lo massacrarono.
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CHI SIAMO
LA COSTITUZIONE della REPUBBLICA ITALIANA
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