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Le raccolte di fotografie pubblicate sul nostro sito


Calendario della Resistenza: tante date e tanti Caduti da ricordare

Comitato provinciale di Novara


La lotta partigiana nel Novarese
(attualmente Novara e Verbano - Cusio - Ossola)

Alcune date significative del mese di febbraio


VILLADOSSOLA - 9 febbraio 1944- I fascisti non vogliono essere meno feroci dei tedeschi

Caduto: Giuseppe Bianchetti

Il 9 febbraio 1944 venne fucilato nelle carceri di Novara Giuseppe Bianchetti, di Villadossola. Questo tragico evento costituiva l'epilogo di una lunga serie di eventi cominciati a Villadossola l'8 novembre 1943, quando veniva ucciso in una sparatoria il diciassettenne Silvio Baccaglio, a cui seguiva il 10 novembre l'uccisione, con un mitragliamento aereo fra la popolazione, di quattro civili (Mario Bosio, Giuseppe Dell'Orto, Olga Zanotti e Ines Zanotti).

L'11 novembre vennero fucilati a Pallanzeno sei patrioti: Redimisto Fabbri, Giuseppe Preioni, Albino Valdrè, Luigi Rossi, Italo Finotto, Andrea Comina.

Il 24 novembre i fascisti giunsero a Villadossola e arrestarono Idilio Brandini, Romualdo Casadei, Rino Zanelli, Pilade Bartolomeo, Novello Bianchi e Giuseppe Bianchetti.

I primi quattro furono condannati alla deportazione in Germania. Novello Bianchi venne trasferito come il Bianchetti alle carceri di Novara e fucilato per primo, il 23/12/1943.


L'ULTIMA LETTERA ALLA MAMMA DI NOVELLO BIANCHI FUCILATO A NOVARA IL 23 DICEMBRE 1943

Novara 23 dicembre 1943.

Cara mamma,

negli ultimi istanti della mia vita, il mio pensiero è a te e a tutti i miei cari, io sono rassegnato alla mia sorte muoio tranquillo con l'anima tesa verso Dio, nella speranza che egli mi accolga nel suo regno.

Una sola cosa io voglio: che tu sia forte, e che sappia sopportare questa grave sciagura che ti colpisce; devi sopravvivere a tutto questo, e pregare per me.

Io dall'alto, nella certezza che Gesù mi accolga fra i suoi fedeli, saprò guardarti e ti proteggerò, in attesa che tutto questo dolore che ti colpisce così crudelmente vada diminuendo adagio, adagio. Devi resistere a tutto ciò, e pensa che hai un altro figlio lontano, " Gustavo", che da molti anni non vedi; sopporta tutto serenamente e attendilo e dagli un bacio per me che fino all'ultimo istante l'ho sempre ricordato.

Non voglio che si pianga per me, accusate il dolore ma siate forti come lo sono io in questo terribile momento che per poco mi separa dalla morte. Ripeto, sii forte e prega per me, e ti chiedo perdono se in passato ti feci molto soffrire, andrò da Dio, anch'egli saprà perdonarmi e di lassù verrò spesso a trovarti; il mio ultimo pensiero è a te cara Mamma: ricordami sempre che io ti voglio tanto bene, sii forte e coraggiosa, un tempo ci ritroveremo ancora; ti bacio tanto, tanto e col pensiero unito al tuo ti dico; «Mamma addio, tuo figlio Novello».

Bacio voi tutti che in questo momento mi venite alla mente. Addio a tutti.

Colui che pregherà per voi.

Novello

Mamma conserva queste immagini e medaglie, baciale, che io le ho baciate.


L'ULTIMA LETTERA AL FRATELLO DI GIUSEPPE BIANCHETTI FUCILATO A NOVARA IL 9 FEBBRAIO 1944.

Novembre 9 Febbraio 1944

Caro fratello Giovanni,

scusami se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto per me mi permetto ancora di inviarti questa mia ultima lettera. Non posso nasconderti che fra mezz'ora sarò fucilato; però ti raccomando le mie bambine di dar loro il migliore aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine.

Ti auguro a te e tua famiglia ogni bene, accetta questo mio ultimo saluto da tuo fratello.

Giuseppe

Di una cosa ancora ti disturbo; di venire a Novara a prendere il mio cappotto e ciò che resta. Ciao Tuo fratello Giuseppe.


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CAMERI - 11 febbraio 1945 - Irruzione nella trattoria

Caduto: Giuseppe Fregonzi

Le azioni di sabotaggio delle SAP e GAP nel capoluogo e nei paesi intorno a Novara crescono in numero e in vigore con il passare del tempo, nonostante le minacce e le azioni di rappresaglia nazifasciste.

Un dipendente comunale di Cameri, Tino Porazzi, annota diligentemente gli atti di sabotaggio operati (ad esempio ai fili telefonici) dai patrioti cameresi: settembre 1943, gennaio 1944 e poi ancora il 21 giugno, il 4 luglio, il 19 agosto e il 20 dicembre del 1944, ecc. Ricorda anche che, a seguito del sabotaggio del 19 agosto, il Comune di Cameri viene penalizzato di ventimila lire e 1300 cittadini sono precettati «per la sorveglianza alle linee telefoniche nelle ore notturne, all'addiaccio».

Le pattuglie di ronda hanno l'ordine di "sparare a vista" e ciò vuol dire, per la gran fifa, sparare ancor prima di chiedere «chi va là» o di intimare «alto là».

11 febbraio 1945: una pattuglia tedesca entra nella Trattoria Belvedere (via Marconi, angolo via Italia). Attorno ad un tavolo vi sono alcune persone impegnate in una vivace discussione; fra queste persone vi sono due giovani, il ventenne Giuseppe Fregonzi e il ventunenne Angelo Ragni.

Visti i tedeschi, i due giovani tentano di filarsela attraverso la porta carraia, ma vengono raggiunti da raffiche di mitra.

Giuseppe Fregonzi cade e muore qualche attimo dopo; Angelo Ragni rimane gravemente ferito. Nella stessa serata due pattuglie tedesche si scontrano per errore e rimane ucciso un sottufficiale. La morte del "camerata" anche se è dovuta, per fatalità, alla fretta di sparare e uccidere, un'insensata sparatoria fra due pattuglie naziste, deve essere fatta pagare ai cameresi. A sera inoltrata vengono arrestati una settantina di giovani che vengono trasportati all'aeroporto di Cameri e rilasciati solo l'indomani in quanto dipendenti di enti ausiliari.


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MEGOLO - 13 Febbraio 1944 - Resistenza eroica

Caduti: Arch. Cap. Filippo Maria Beltrami - Avv. Cap. Gianni Citterio (Redi) - Ten. Antonio Di Dio - Carlo Antibo - Bassano Bassetto - Aldo Carletti - Angelo Clavena - Bartolomeo Creola - Emilio Gorla - Paolo Marino - Gaspare Pajetta - Elio Toninelli

Erano le 6.30 del 13 febbraio 1944. Dei reparti di SS appoggiati da una compagnia della Guardia Nazionale Repubblichina, coperti dalla fitta nebbia delle prime ore del mattino, nascosti gli automezzi in un avvallamento a qualche centinaio di metri da Megolo, invasero la piccola frazione del comune di Pieve Vergonte.

Prima facile preda del nemico furono Bassano Bassetto e Bartolomeo Creola, colti nel sonno in una camera dell'Osteria del Remo. I due partigiani riposavano in attesa che l'oste alle 7 li svegliasse perché avrebbero dovuto raggiungere i distaccamenti dislocati in altre località della valle.

Vennero trascinati alla presenza del cap. Simon, comandante delle forze nazi-fasciste. Pur essendo frustati, bastonati e torturati, i due giovanissimi partigiani rimasero nel più assoluto silenzio e infine vennero consegnati ai militi. I fascisti ripresero la bastonatura dei due ragazzi e quindi li fucilarono in una piazzetta a lato dell'osteria.

Il capitano Beltrami, con calma e sicurezza, dispose i suoi partigiani su una linea di circa 200 metri e quindi prese il proprio posto di combattimento. Cinquantatré uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra, e una cinquantina di moschetti erano pronti a difendersi dall'attacco condotto da oltre cinquecento nazi-fascisti armati di un cannoncino, due mortai, una mitragliera da 20 mm., tre mitragliatrici pesanti, fucili mitragliatori e mitra.

Il Capitano aveva respinto per la seconda volta l'invito alla resa del Comandante tedesco: con tutti i suoi partigiani, aveva accettato il combattimento.

Alle 7 del 13 febbraio 1944, la nebbia era dispersa dai raggi del sole che illuminava la valletta di Megolo. I partigiani, distesi lungo la linea di difesa, assistevano immobili all'avanzata della colonna tedesca, a al successivo disporsi per l'attacco delle forze nemiche. I tedeschi avanzavano in tre linee, distanziate l'una dall'altra di qualche metro: la GNR, rinforzata reparti di SS, avanzava sulle due ali.

Era necessario attendere: l'esiguo numero di uomini e la scarsa potenza di fuoco consigliavano di attendere che il nemico fosse giunto a breve distanza. L'attesa era estenuante, snervante. Le SS erano ad una trentina di metri dalla balza dietro cui era appostato il gruppetto di comando. Il mitra del Capitano ruppe, con il suo crepitare, il silenzio della valle. Tutte le armi della difesa risposero al richiamo e la prima linea dell'avversario fu costretta a ripiegare in disordine lasciando sul terreno alcune decine di morti.

Non vi furono soste nella battaglia; dall'una e dall'altra parte si continuò con sempre maggior accanimento. Purtroppo, l'unica arma pesante si inceppò e dovette essere abbandonata. Un colpo di mortaio raggiunse la piazzola del mitragliatore all'ala sinistra della difesa, uccidendo il servente al pezzo.

Alle 10, dai Presidi dell'Ossola giunsero rinforzi al nemico: da quel momento la situazione volse a favore delle forze nazi-fasciste.

Nel tentativo di spostarsi verso il centro, il cap. Citterio venne colpito da una raffica e abbattuto. Era una grave perdita: Redi, uno dei valorosi della vecchia guardia di Beltrami, era un coraggioso, un abile ufficiale e un prezioso consigliere del Capitano. La scarsità di munizioni non permetteva di resistere a lungo e con scarse possibilità di successo. Bisognava tentare una sortita e Beltrami avvertì gli uomini di tenersi pronti. Approfittando di uno dei frequenti avvicendamenti nella prima linea del nemico, diede l'ordine di contrattaccare e i partigiani balzarono in avanti all'assalto. Sorpresi dall'ardita azione di un pugno di uomini ormai decisi a tutto, la prima linea nemica si ritirò disordinatamente, travolgendo e disorganizzando anche le linee di rincalzo. La fuga nazi-fascista ebbe termine nell'abitato di Megolo. Entrarono in azione i rinforzi sopraggiunti dal Nord; i giovanissimi della "banda", lasciatisi trascinare dell'entusiasmo, anziché retrocedere e prendere posizione su una nuova linea, abbandonarono ogni prudenza e si spinsero allo scoperto fino alle prime case, dove vennero falciati dalle raffiche delle mitragliatrici.

Caddero Antibo, Gorla, Clavena, Toninelli, Carletti. Anche Marino venne abbattuto poco dopo da una raffica di mitra sulla soglia di una casa.

Intanto il Capitano tentava di riorganizzare i propri uomini su una nuova linea di difesa ma, ormai convinto di non poter reggere ai nuovi attacchi, dava disposizione per evitare l'accerchiamento e per operare un'azione di sganciamento, nel caso in cui la situazione fosse ancora peggiorata. Mentre, ritto accanto ad un grosso castano, osservava le posizioni, il Capitano venne colpito da una raffica al petto e alla gola. Antonio e Gaspare gli furono subito accanto e tentarono di trasportarlo in una baita che sorgeva sul pianoro a una trentina di metri dal luogo in cui era stato ferito. Ma il Capitano, intuendo la sua prossima fine, a cenni fece comprendere ai due giovani di ritirarsi prima che fossero accerchiati dal nemico. La sua posizione venne individuata e diventò un bersaglio sicuro: un colpo di mortaio troncò ad un tempo la vita di Beltrami, Di Dio e Pajetta. Dopo quattro ore di combattimento accanito, al termine delle munizioni, senza la guida del loro Capitano, i superstiti furono costretti a ripiegare e disperdersi fra le rocce e nella boscaglia, cercando poi di raggiungere gli altri distaccamenti.

Ultimo atto della tragedia: un fascista, raggiunto il Capitano, infierì ripetutamente con il pugnale sul corpo esanime.

Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell'eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS. Era infatti caduto combattendo, alla testa dei suoi ragazzi, un uomo le cui epiche gesta avevano attirato l'attenzione non solo del popolo e del nemico nella nostra provincia, ma di tutta l'Italia occupata e dal Comando supremo nazista.


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GRIGNASCO Cà di Negri - 28 febbraio 1944 - Caccia al ribelle

Caduti: Giovanni Camana, Domenico Federico

Anche la Valsesia è sottoposta alle continue scorribande nazifasciste. In particolare, le cittadine e i paesi che si incontrano percorrendo la provinciale nel tratto Romagnano Sesia - Quarona e la statale 299 nel tratto Serravalle-Borgosesia sono costrette a subire gli arbitrii e le violenze degli aggressori tedeschi e dei legionari repubblichini.

Il 28 febbraio cade la neve sulle colline e la pattuglia dell'Osella scende dalla Colma di Valduggia per raggiungere Gargallo, dove deve prelevare uno stock di scarpe, una merce preziosa per i compagni che sono in montagna. Con fatica, arriva a Cavallirio, dove sa di poter contare su amici che possono procurarle un camioncino.

Sono cinque ragazzi: Giovanni Camana, Aldo De Paoli, Vittorio Pizzolotto, Domenico Federico e il "Negru" di Coggiola. I cinque giovani dell'Osella, in possesso del camioncino, arrivano a Gargallo, prelevano dal calzaturificio la merce necessaria e, quindi, riprendono il cammino per rientrare alla base.

Lungo il percorso, il camioncino viene avvistato da una pattuglia motorizzata tedesca e viene raggiunto da una nutrita scarica di mitra; la pattuglia partigiana riesce a defilarsi e a fare perdere, temporaneamente, le proprie tracce. I cinque partigiani, che non si sono concessi finora un momento di riposo e che sono intirizziti dal freddo, ritenendo di aver seminato definitivamente gli inseguitori, decidono di fare una sosta in un cascinale: è quello del "Vignol", tra Ca' Marietta e Ca' di Negri, in territorio di Grignasco.

Qui i partigiani vengono sorpresi dalla pattuglia nemica; non si arrendono e rispondono immediatamente al fuoco, decisi a battersi fino al limite del possibile. Nello scontro lasciano la vita Giovanni Camana di Prato Sesia e Domenico Federico, detto Mimmo, di Grignasco. Gli altri tre, arrampicandosi lungo un canalone che passa dietro il cascinale, riescono ancora una volta a sfuggire sia alla morte che alla cattura.

I tedeschi non danno sepoltura ai due partigiani uccisi. L'indomani i corpi dei due caduti vengono ritrovati sotto la neve dai compagni di lotta,.

Questo episodio è ricordato dal partigiano Italo Rolando, sindaco di Prato Sesia. La testimonianza è del superstite Aldo De Paoli, di Grignasco.


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PROVINCIA DI NOVARA - Scioperi patriottici

Le rivendicazioni (richiesta di aumenti salariali contro il carovita, di maggiori assegnazioni di generi alimentari, di mense per i lavoratori, di gomme per biciclette, di carbone, di legna, ecc.) che furono motivo degli scioperi dell'autunno del 1943, continuarono anche nell'anno successivo: in gennaio e febbraio del '44, in marzo con un grande sciopero generale e ancora in aprile e maggio.

Anche gli operai novaresi scesero in lotta a fianco dei lavoratori del triangolo industriale Torino - Milano - Genova.

Dalle stesse fonti fasciste abbiamo elenchi e rapporti, certamente incompleti, degli scioperi o, come scrivono i repubblichini, delle "astensioni" verificatesi in provincia di Novara. Risulta evidente che i più elevati indici di astensione dal lavoro si ebbero dove erano più numerosi gli stabilimenti industriali e nei maggiori centri della provincia (Novara, Borgomanero, Omegna, Gravellona, Verbania, Villadossola, Trecate, ecc.) È opportuno tener presente che, in generale, questi centri erano sede di presidi nazi-fascisti.

Ogni volta che i partigiani scendevano in pianura e occupavano per un'azione dimostrativa una città o un paese (come avvenne a Omegna, Crusinallo, Casale Corte Cerro), i lavoratori e gli studenti abbandonavano spontaneamente il posto di lavoro e la scuola e si riversavano nelle piazze, per raccogliersi attorno ai partigiani e aiutarli a prelevare armi e munizioni dagli stabilimenti che producevano materiale bellico.


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CARCEGNA DI MIASINO - 14 febbraio 1945 - "E' morto mio fratello"

Caduto: Aldo Oliva

Verso la fine di ottobre '44, a Gignese, si ritrovarono, finalmente, i fratelli Aldo e Elsa Oliva, ossolani, di famiglia operaia, socialista e, naturalmente, antifascista. I due fratelli erano saliti in montagna in tempi differenti e avevano militato in formazioni partigiane diverse, ma sempre operanti nell'Alto Novarese: Aldo, detto "Ridolini", faceva parte della brigata "Franco Abrami" della divisione "Valtoce"; Elsa era partigiana della II brigata della divisione "Beltrami".

La "Franco Abrami" operava prevalentemente nella zona del Mottarone, mentre il territorio di lotta della "Beltrami" era la Valstrona e la sponda occidentale del Cusio, fino alle porte dell'Ossola.

Elsa decide di combattere assieme ad Aldo e lascia, a malincuore, il comandante Sabatino Meloni della "Beltrami" per unirsi ai partigiani della brigata "Franco Abrami".

"Ridolini" era un giovane coraggioso e attivissimo: prediligeva le azioni condotte singolarmente, ma lo si trovava sovente alla testa di pattuglie che attaccavano i posti di blocco, le camionette cariche di tedeschi o di fascisti, un treno blindato. "Ridolini" sapeva rendersi utile in ogni occasione, perché al coraggio univa l'astuzia e la prontezza necessarie nella guerriglia, mentre nei periodi di sosta sapeva tenere allegri i compagni con storielle buffe.

Il nemico lo cercava e gli dava la caccia; ancora una volta, nel corso del rastrellamento che investì i due versanti del Mottarone, "Ridolini" riuscì a giocare il nemico, ad attaccarlo e a procurargli perdite, cogliendo poi il momento opportuno per eclissarsi con i suoi uomini.

Aldo Oliva era instancabile e superò le mille insidie della guerriglia fino al febbraio 1945, quando fu costretto a rifugiarsi, dopo essersi sottratto per l'ennesima volta alla cattura, in una casa di Carcegna, una piccola e bella frazione di Miasino.

Al tramonto del 14 febbraio, Aldo, rassicurato dal silenzio che circondava la casa, lasciò gli amici che lo avevano ospitato per raggiungere il Circolo Operaio della piccola frazione, con la speranza di poter cogliere informazioni sui movimenti del nemico. Ma i fascisti non si erano allontanati dalla borgata.

«Il nemico, tante volte beffato, lo coglie incidentalmente, a Carcegna, con una scarica di mitra non preceduta da alcuna intimazione di alt. L'indomani due staffette di Carcegna raggiungono Gignese». ricorda Elsa «Con voce supplichevole domando: dov'è mio fratello? Mi guardano con quella strana aria, poi una di esse, con un filo di voce, mi annuncia: E' morto, lo hanno ucciso i fascisti ieri sera, davanti alla chiesa di Carcegna. Rimango come paralizzata. Le mie labbra si muovono e ripetono come un ritornello: è morto mio fratello, è morto mio fratello».


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FONDOTOCE - 18 febbraio 1945 - Assassinio davanti alle scuole

Caduto: Bruno Bisi

Gli "squadristi del ‘43" furono tra i nemici più feroci: al contrario di molti opportunisti che, dopo aver servito fedelmente la Repubblica di Salò, si presentavano ai gruppi partigiani giurando di essere stati sempre antifascisti, questi squadristi perseveravano nella caccia ai partigiani e nelle azioni di distruzione e di morte. La loro volontà di torturare, seviziare, uccidere era tale che sembrava di trovarsi di fronte dei veri killer, dei professionisti del delitto.

Nelle prime ore del mattino, l'operaio Bruno Bisi, di 36 anni, scendeva in bicicletta, come ogni giorno, da Bieno di San Bernardino Verbano a Fondotoce per recarsi al lavoro. Era un giovane allegro e anche quella mattina stava fischiettando. Il Bisi, sereno, raggiunse la piazzetta di Fondotoce e, proprio ai piedi della scalinata dell'edificio scolastico, venne investito da una raffica di mitra.

Questo drammatico episodio è stato un assassinio in piena regola, un delitto efferato e raccapricciante, attuato senza la minima giustificazione.


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BIUSE DI OLZENO - 21 febbraio 1945 - Posto 24 e Posto 24 Bis

Caduti: Mario Gramoni ("Dieci"), Dante Sardi ("Dario")

Il Verbano e la Valle Cannobina subirono, nel corso della lotta armata di liberazione, ben quattro rastrellamenti che lasciano il segno; nel febbraio, nel giugno, nell'ottobre del 1944 e nel gennaio- febbraio del 1945. Nel corso dei venti mesi di Resistenza, i nazifascisti non si limitarono però ai massicci rastrellamenti, ma compirono numerose scorribande nella vasta zona ai confini della Svizzera.

Lentamente, nei mesi di novembre, dicembre e gennaio vennero ricostruite le squadre. Sulla collina di Ascona (Svizzera), la "Battisti" organizzò il Posto 24 in una villetta affittata come appoggio ai partigiani che, fuggiti dai campi di internamento svizzeri, accorrevano in patria per combattere nuovamente contro i nazi-fascisti.

Successivamente, a Crealla, in Val Cannobina, venne stabilito il Posto 24 bis a potenziamento della rete di smistamento. Per difendere questa importante via di accesso, che si rivelò utilissima anche al Comando Zona Ossola di recente costituzione, il comandante Arca distaccò alle Biuse di Olzeno una squadra della "Battisti" formata da 12 uomini e comandata da Mario Gramoni ("Dieci").

A metà febbraio la zona era fortemente innevata: 50-60 centimetri di neve alle Biuse e alla Quadra, oltre un metro ai "Tre confini" e al passo del Limidario. Le corvée in queste condizioni erano faticosissime; in queste precarie condizioni il punto di riferimento più vicino, situato a Gurrone, era raggiungibile in oltre 4 ore di marcia.

Nella giornata del 21 febbraio 1945, in una impari battaglia la squadra venne accerchiata da 150 uomini. "Dieci", "Dario" e Beppe (nipote di "Dieci", detto il "Principino") approfittarono di una tregua per uscire, ma alcuni militi che provenivano dal sentiero della Quadra aprirono il fuoco e tutti e tre i partigiani vennero feriti. "Dario", colpito alle gambe, cadde tra le due baite, "Dieci", colpito al ventre, volle a tutti i costi fermarsi per proteggere i suoi ragazzi, ma questi lo trascinarono verso il pendio e con una corsa affannosa riuscirono a portarlo nel bosco sottostante. "Dario" rimasto a terra ferito, raggiunto dai confinari, fu barbaramente trucidato; il "Principino", ferito a un braccio, venne fatto prigioniero.

Dopo tre giorni, Mario Gramoni fu trovato morto, la mano stretta attorno alla sua pistola puntata alla tempia.


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DOMODOSSOLA - 23 febbraio 1945 - Il Comandante Emilio

Caduto: Emilio Murciano

Nato nel 1920 a Druogno, in Val Vigezzo, ancora bambino si trasferì con la famiglia a Galliate. Diplomato alle magistrali e iscritto all'Università Statale di Milano, riuscì a procurarsi un incarico come insegnante alle scuole elementari di Galliate.

Chiamato alle armi, frequentò il corso allievi ufficiali a Spoleto. Ufficiale di prima nomina, Murciano venne destinato all'81° Fanteria, di stanza a Roma e vi rimase fino all'8 settembre. Rientrato a Galliate, Murciano, nel novembre 1943, conseguì la laurea in giurisprudenza e iniziò il tirocinio presso uno studio legale di Novara.

Nel maggio '44, poco prima che scadessero i termini fissati dalla Repubblica di Salò per presentarsi alle armi senza incorrere nelle terribili sanzioni, Emilio Murciano lasciò la famiglia, lavoro ed amici e il 22 maggio 1944 raggiunse sui monti i partigiani di Alfredo Di Dio.

Qualche giorno dopo, Murciano si unì ad alcuni vecchi amici che aveva ritrovato fra i garibaldini della "X Rocco", brigata della divisione "Redi". Ben presto le sue doti emersero e venne nominato comandante di distaccamento. Il brillante comportamento tenuto nella battaglia del Massone (nei primi giorni di agosto '44) persuasero il Comando garibaldino della "X Rocco" ad affidargli il comando del 2° battaglione "L.Comoli".

Nel corso della battaglia di Gravellona Toce, il Comandante Emilio rimase gravemente ferito alla testa; fu catturato e ricoverato, con speciale sorveglianza, all'ospedale di Omegna. Il personale dell'Ospedale del capoluogo del Cusio era, in gran parte, collaboratore dei partigiani, e, quindi, la permanenza del Comandante Emilio e di altri partigiani ricoverati fu assai breve. Un commando partigiano, con azione a sorpresa, in accordo con il personale ospedaliero, prelevò Emilio e gli altri partigiani ricoverati e, con una barca, li trasferì sulla sponda opposta del lago d'Orta, dove vennero sistemati presso le famiglie amiche o ricoverati in un ospedaletto da campo.

Non appena il Comandante Emilio si sentì in forze, riprese il suo posto di lotta al comando del battaglione "Comoli", per venire poi nominato Comandante di Brigata.

Il Comandante Emilio era instancabile: con azioni quotidiane, cercava il nemico, lo attaccava, lo metteva in fuga. Andò fino a Pettenasco per un attacco al posto di blocco, a cui subito seguì l'assalto di treni blindati e di presidi nella Bassa Valle Ossola.

Proprio nel corso dell'assalto ad un treno blindato nei pressi di Vogogna, nella notte fra il 2 e il 3 febbraio del 45, il Comandante Emilio venne ferito gravemente e ricoverato all'Ospedale S. Biagio di Domodossola in condizioni disperate.

Il coraggioso, intrepido Comandante Emilio morì il 23 febbraio 1945, lasciando un grande vuoto nelle fila partigiane.


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BORGOMANERO - 23 febbraio 1945 - Massacrati

Caduti: Ernesto Mora - Ezio Gibin

VFra le unità garibaldine che operavano nel Medio Novarese e che, sovente, portavano le loro azioni anche nel capoluogo di questa zona, Borgomanero, c'era la "Volante Loss".

Il comando della "Loss" affidò ai garibaldini Mora e Gibin il compito di catturare Roncarolo, un piccolo gerarca che godeva a Borgomanero e nel circondario della fama di torturatore di partigiani. Ezio Gibin, nato nel 1926 ad Ariano Polesine (Rovigo), ed Ernesto Mora, nato a Borgomanero nel 1924, erano due giovani che si erano distinti in azioni difficili e che conoscevano bene la città, il Roncarolo e le sue abitudini. Roncarolo era infatti solito andare nelle ultime ore antimeridiane all'ospedale SS Trinità e, proprio nei pressi dell'ospedale, si appostarono Mora e Gibin in divisa di militi della "Folgore", il 23 febbraio 1945.

Poco dopo le undici il Roncarolo si fece vivo, scortato da un brigadiere della GNR e da un ragazzotto, Maffei, di Borgomanero. In un batter d'occhio i tre fascisti vennero fermati e disarmati: il ragazzino tremava come una foglia e i due garibaldini, con un intempestivo atto di generosità, dopo avergli dato una buona strigliata, lo lasciarono senza pensare alle conseguenze. Il fascistello liberato, infatti, imbattendosi in una pattuglia della "Folgore", denunciò quanto era avvenuto poco prima nei pressi dell'ospedale.

La caccia ebbe inizio; i garibaldini e i loro prigionieri vennero avvistati ai confini di Borgomanero. I fascisti spararono ed ricevettero immediata risposta dai due coraggiosi partigiani. Lo scontro si prolungò per circa mezz'ora: due garibaldini contro una nutrita pattuglia di paracadutisti. Durante la sparatoria i due prigionieri riuscirono a sfuggire alla sorveglianza dei garibaldini e a unirsi ai loro camerati. Mora e Gibin nella sparatoria vennero feriti e, mentre Mora tentava di portare Gibin all'ospedale, sopraggiunsero il capitano Roncarolo e i paracadutisti della "Folgore".

Mora rispose al fuoco nemico ma, ben presto, ferito e senza munizioni, fu costretto ad arrendersi. Gibin venne ricoverato all'ospedale; Mora fu subito sottoposto a tortura perché volevano costringerlo a indicare dove si trovava la sua formazione e da quanti uomini era composta. Mora tacque e non tradì i suoi compagni, anche se venne violentemente bastonato. Poi il coraggioso Mora venne spinto e trascinato per le strade di Borgomanero, il volto tumefatto, tutto il corpo sanguinante per le legnate e le fustigate. I fascisti volevano che la popolazione vedesse quale sorte veniva riservata ai "ribelli", a chi combatteva contro la Repubblica di Salò. Un gruppo di donne, di fronte allo spettacolo inumano, bestiale, a cui i fascisti le costrinsero ad assistere, non seppero nascondere il loro sdegno.

Nel vicino paese di Cressa, il presidio nazifascista al Mulino Saini, tenuto da qualche giorno in allarme da reparti garibaldini della "Pizio Greta", venne rinforzato da un nuovo reparto repubblichino al comando del col. Festi.

Il nuovo comandante mandò a Borgomanero un automezzo su cui dovevano essere caricati, per essere trasferiti a Cressa, i due partigiani rinchiusi nelle loro carceri. Roncarolo andò all'ospedale e prelevò Gibin, nonostante il parere contrario del chirurgo che l'aveva operato, dichiarando di aver ricevuto l'ordine di portare il garibaldino diciassettenne a Novara. Poi al carcere prelevò anche Ernesto Mora. Durante il percorso Borgomanero-Cressa i due partigiani furono nuovamente percossi e al giovane Gibin venne spezzato, con il calcio del mitra, il gesso applicato alla gamba appena operata.

Alessandro Bertona, uno dei civili rastrellati dal Festi e costretti ad assistere all'eccidio, testimonia:

«Io ho la sventura di essere testimone al massacro dei due giovani eroi. Gettati dal camion, come fossero sacchi, i carnefici si avventavano con pugni, pedate e calci di moschetto sui corpi dei due partigiani. E' una gara oscena, selvaggia, a chi picchia di più e più forte. Il calcio di un moschetto si spezza colpendo la gamba martoriata di Gibin. Mora cade al fianco del compagno, con il volto sfigurato anche in conseguenza di un pugno assestatogli da un ufficiale fascista che gli vomita in viso: Va ora a chiamare la tua "Volante Loss". Non un lamento esce dalle labbra dei due ragazzi. Infine sono trasportati di peso all'esterno del muro di cinta e nuovamente torturati».

Ezio Gibin muore tra atroci sofferenze. Ernesto Mora è costretto ancora a vedere le cose inaudite, terribili, atroci che i fascisti fanno sul cadavere del compagno: i fascisti si lanciano sul corpo inanimato di Gibin, con colpi di tallone gli schiacciano l'occhio sinistro, con un pugnale gli strappano l'occhio destro ed ancora gli squarciano il petto per strappare il cuore.

«Viva l'Italia libera e viva i partigiani!», trova ancora la forza di gridare Ernesto Mora, prima di morire.

La testimonianza di Alessandro Bertona termina con il ricordo di un'ultima atrocità: «A Mora vengono strappati gli occhi».


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TRAREGO VIGGIONA - 25 febbraio 1945 - "Dei repubblichini siam la disperazione"

Caduti: Pierino Agrati, Ivo Borella, Corrado Ferrari, Ermanno Giardini, Luigi Leschiera, Gastone Lubatti, Luigi Velati, Aldo Brusa, Primo Carmine

La "Volante Cucciolo" operava nel Verbano ed era un reparto della brigata "C. Battisti"; si trattava di una piccola unità combattente, composta da una decina di uomini, senza una base fissa, sempre in movimento alla ricerca di posti di blocco e di pattuglie nemiche da attaccare in qualsiasi ora del giorno e della notte. Erano allegri i ragazzi della "Volante" e sovente cantavano canzonette anche di loro invenzione; partivano, cantando, per le loro azioni, colpivano il nemico e se ne andavano cantando:

«Eccoci qua, noi siam della "Volante",
della "Battisti" siam la più bella formazione
e dei repubblichini siam la disperazione
».


Gli altri reparti della "Battisti" accolsero quelli della "Cucciolo" con grande simpatia perché sapevano infondere fiducia e coraggio e portavano allegria, ma sapevano anche fare sul serio.

I compagni che li ospitarono il 25 febbraio ricordano che, non appena fuori dalla baita, i nove ragazzi della "Cucciolo" ripresero a cantare. In località Promè di Trarego, i partigiani della "Cucciolo" si accorsero di essere circondati dai fascisti. Il partigiano Nino Chiovini ("Peppo"), che comandava la "Cucciolo", ricorda: «Siamo allo scoperto, nella neve, tra gli alberi spogli. Scendono verso sera, sono dappertutto. Si tratta di un centinaio di militi della brigata nera, comandati dal cap. Mario Misi della "Confinaria"».

«Abbiamo cercato di sfondare», continua Chiovini, « ma di nove ci siamo salvati in due, Carluccio Castiglioni ed io che mi sono gettato dentro un fosso e sono rimasto in acqua un'ora e mezza». E ancora: «Tre sono colpiti a morte; altri quattro gravemente feriti, dopo avere tenuto un fiero contegno... vengono selvaggiamente uccisi».

Cadono così Pierino Agrati di 24 anni, Ivo Borella di 26 anni, Corrado Ferrari di 24 anni, Luigi Leschiera di 24 anni, tutti operai, e ancora Gastone Lubatti di 19 anni e Luigi Velati di 21 anni, studenti, infine Ermanno Giardini.

Sempre in località Promè di Trarego, i militi della brigata nera catturano due civili che si trovano in zona; si tratta di Aldo Brusa di 29 anni e Primo Carmine di 34 anni, che vengono fucilati sul posto.

Amelia Maccarinelli, la coraggiosa madre dello studente Gastone Lubatti ricorda: «Il 25 febbraio del '45 qualcuno dice a mia figlia Giuliana che lavora in banca: la "Volante" è partita, non si sa che fine ha fatto». e continua: «Tutti presenti, allineati e freddi, nel cimitero di Trarego, li ritroviamo, sette più due civili, al cimitero, già ricomposti dalle suore, perché sono stati riempiti di pallottole, 438 pallottole e poi seviziati».

La gente del luogo dice: «La morte ha fissato sui loro volti, trasfigurati dalle sevizie, un sorriso che sembra non debba venire meno».


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CESARA - 25 febbraio 1945 - Ma il "grosso" è in salvo

Caduti: Pietro Marino, Luigi Tagini, Luigi Villa, Churtsidze (Ivan l'ucraino')

Cesara è un piccolo, ridente paese situato sulle sponde del lago d'Orta, a sette chilometri dalla provinciale che unisce il capoluogo cusiano a Gozzano; è dominato dalla parrocchiale di S.Clemente con campanile romanico.

I partigiani trovarono ospitalità nella piccola borgata: in particolare quelli della "Beltrami", della "Redi" e della "Valtoce" erano di casa e avevano la certezza di essere sempre ben accolti dalla popolazione.

All'alba del 25 febbraio, sebbene la primavera fosse vicina, l'aria era frizzante; lo sapevano le sentinelle del "Bariselli", un battaglione della brigata "X Rocco" della II divisione "Redi", che non riuscivano a scaldarsi. Ma era comunque necessario stare ben svegli per evitare brutte sorprese, perché i rastrellamenti erano all'ordine del giorno. Venne dato l'allarme: mentre ai margini del paese si organizzava la difesa con tutti gli uomini armati, i partigiani disarmati, i nuovi arrivati, venivano guidati nella boscaglia, nella parte alta del paese verso monte Piogera. Perché i disarmati potessero raggiungere la boscaglia e defilarsi, gli armati fecero convergere il fuoco sul reparto tedesco più vicino, costretto, per la sorpresa e la massa di fuoco, a ritirarsi precipitosamente.

La battaglia continuò fra le case, nelle strette strade della borgata, e il nemico piazzò una mitragliatrice da 20 mm. sul campanile. I "vecchi" del glorioso battaglione si batterono con sorprendente slancio, creando vuoti nelle fila nemiche.

Pietro Marino, detto "Marco" e Aurelio Fiorenzuola, detto "Fulmine", si buttarono in un fossetto che correva lungo la strada, ma "Marco" rimase ferito mortalmente al capo e morì nelle braccia di "Fulmine", che qualche istante dopo venne ferito a una gamba. Bruno Menegatti ("Alfredo") intervenne coraggiosamente e aiutò il compagno ferito a raggiungere una casa dove gli prestarono le prime cure.

Luigi Villa, detto "Louis", eIvan "l'ucraino" restarono quindi imbottigliati in una stradetta del paese: presi fra due fuochi, caddero crivellati da numerosissimi colpi di mitra.

Fu infine la volta di Luigi Tagini, ("Tagin"), che venne abbattuto da una raffica di mitra mentre era in corso l'operazione di sganciamento.

Il "grosso" del battaglione riuscì a raggiungere i boschi; in paese, a protezione della ritirata, rimasero due squadre: quella di "Alfredo" che, quando ritenne giunto il momento di dileguarsi, scese verso Nonio e scomparve alla vista del nemico; quella di Paolo Torlone, detto "Blecck", che resistette finché non vennero a mancare le munizioni e fu costretta ad arrendersi.

I prigionieri vennero trasportati nelle carceri naziste di Baveno, un'anticamera della morte. Paolo Torlone, Severino Gobbi ("Tetta"), furono fucilati il 24 marzo 1945 con altri 8 partigiani a Solcio di Lesa.


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CASTIGLIONE D'OSSOLA - 26 febbraio 1945 - Il parroco di montagna

Caduto: don Giuseppe Rossi

Il comune è costituito da due nuclei urbani, Calasca e Castiglione e conta poco più di mille anime; Castiglione è il primo dei due nuclei che si incontra risalendo la valle Anzasca, sulla sponda nord del torrente Anza.

Nel 1938, il 30 ottobre, aveva fatto il suo ingresso nella parrocchia di S. Gottardo il nuovo parroco, don Giuseppe Rossi, nato a Varallo Pombia. Mons. Lodigiani ricorda che don Giuseppe, il giorno in cui prese possesso della parrocchia, salì sul pulpito e, rivolto alla sua nuova "famiglia", si presentò così: «Darò tutto quello che ho, anzi darò tutto me stesso per le vostre anime».

Dall'ottobre 1944, furono tali e tanti gli attacchi delle formazioni partigiane ai presidi nazifascisti in Valle Anzasca che il nemico venne costretto a raddoppiare i reparti e a dare loro il cambio con maggiore frequenza.

Il 26 febbraio 1945, proprio in occasione di un cambio ai presidi di Calasca e di Pestarena, i partigiani di Domenico Pizzi ("Moro"), della formazione garibaldina "Redi", attaccarono due plotoni della II Compagnia della brigata nera "Ravenna-Corrao", in località Vallone di Casa Paita. I partigiani non ebbero perdite e riuscirono ad allontanarsi prima del sopraggiungere di rinforzi al nemico; i fascisti ebbero invece due morti e 14 feriti.

I fascisti, come era loro consuetudine, ricorsero alla rappresaglia, modo semplice ma vile di sfogare la propria rabbia.

I rinforzi arrivarono sul luogo dello scontro quando tutto era finito; raggiunsero quindi Calasca e Castiglione, dove si diedero al saccheggio, incendiando numerose abitazioni e prelevando come ostaggi una quarantina di persone; fra queste anche don Giuseppe, parroco di Castiglione. Gli ostaggi vennero riuniti in piazza per essere interrogati. Don Giuseppe fu accusato di avere suonato le campane per avvertire i partigiani dell'arrivo della colonna nera, ma il parroco ribatté che l'orologio del campanile aveva solo suonato le ore.

L'interrogatorio di don Giuseppe terminò solo dopo diverse ore, alle 18; il parroco venne rilasciato dopo essere stato minacciato di morte. Molti amici corsero da don Giuseppe per suggerirgli di allontanarsi dal paese almeno per un certo periodo. Ma, ricorda ancora mons. Lodigiani, il giovane parroco rispose a tutti: «Perché fuggire? Mi sento tranquillo in coscienza, il mio dovere di pastore, di parroco è di rimanere qui, tra voi che potete avere molte necessità».

Alle 18 e trenta quattro militi si presentarono in parrocchia per imporre a don Giuseppe di seguirli: don Giuseppe viene accompagnato al comando della brigata nera.

Alcuni parrocchiani lo videro entrare al comando e, da quel momento, don Giuseppe scomparve.

Dopo qualche ora, la sorella del parroco, Maria, si recò al comando fascista per sapere quando don Giuseppe sarebbe stato rilasciato, ma i fascisti si dimostrarono stupiti e dichiararono che il parroco era stato rilasciato da tempo.

Alcuni giorni dopo, sui muri di Castiglione e di Calasca venne affisso dai fascisti un manifesto in cui si leggeva: «Questo Comando si unisce al Paese tutto nel sincero rimpianto per la scomparsa del parroco di Castiglione, reputato persona onesta ed animato da puri sentimenti di italianità. Si dichiara pertanto che alle ricerche iniziate per trovare i colpevoli della morte dei nostri camerati, si aggiungeranno quelle per la ricerca dei responsabili della scomparsa del vostro parroco».

Il 3 marzo, una giovane del paese, Anna Piffero, ricevette la confidenza di un milite della "Corrao"; il milite rivelò il luogo dove don Giuseppe era stato trucidato. Per evitare gravi conseguenze al milite-confidente, venne fatta correre la voce che una ragazza di Castiglione aveva visto in sogno il corpo del parroco in fondo ad un burrone.

La popolazione organizzò la ricerca e il corpo di don Giuseppe venne ritrovato in frazione Colombetti «sepolto ai piedi di una roccia, vicino alle rovine di un antico mulino, coperto con sassi, muschio, rami. Ha la fronte e la testa spaccata, sfondata. Sul corpo crivellato di pallottole sono evidenti segni di dure percosse: ha il braccio destro spaccato, le mani sono tutte graffiate. Sepolto, gli hanno ancora collocato una pesante pietra sulla testa».

Don Giuseppe Rossi, il parroco trentaduenne di Castiglione d'Ossola, era quindi stato barbaramente trucidato da fascisti che, per colmo di vigliaccheria, rifiutarono anche di assumere la responsabilità dell'assassinio.

Qualche giorno dopo (il 7 marzo), in una frazione di Castiglione d'Ossola, i fascisti catturarono il partigiano Martino Panighetti: lo torturarono, lo seviziarono, lo massacrarono.


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